ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 20 marzo 2023, n. 11
Il manipolo di canori che ha intonato “Bella Ciao” quando la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha guadagnato il palco del Congresso Nazionale della Cgil è stata solo la più vistosa delle rimostranze che diversi militanti del sindacato di Corso Italia hanno formulato sui social e nelle loro lettere ai direttori di quotidiani durante la settimana precedente. Per dire che “Landini non doveva invitare Meloni” e che “ha sbagliato a farla parlare”: era ventisette anni che un Presidente del Consiglio non interveniva al Congresso della Cgil. Si doveva interrompere questo digiuno proprio con il governo più a destra che l’Italia abbia avuto dalla nascita della Repubblica!?
Probabilmente si è trattato di una minoranza rumorosa, ma sufficiente per dare a pensare a molti che l’operazione di Landini sia stata coraggiosa in quanto rischiosa per il suo consenso interno. Si tratta però di un pensiero che reggerebbe solo se si pensasse che un leader che ha conquistato la segreteria generale del più grande e longevo sindacato d’Italia possa avere come unica sensibilità politica quella dell’azzardo.
Al più si può pensare che il rieletto segretario abbia ambizioni da “capitano di ventura” di ampie coalizioni che non sono andate oltre gli slogan e le iniziative conferenziere (dalla “coalizione sociale” lanciata nel 2015 all’evento “Il lavoro interroga”, fino alla giornata del congresso nazionale dedicata alle opposizioni). Landini non è però uno sprovveduto e nessuno meglio di lui conosce la riarticolazione dei rapporti tra elettorato politico e base del sindacato di cui si discute al seguito di ogni tornata elettorale, non solo in Italia.
Più verosimile è dunque pensare che l’invito a Giorgia Meloni risulti da un calcolo politico, largamente tradizionale negli obiettivi, anche se perseguito attraverso un irrituale per alcuni irritante. Sul fronte interno Landini deve al contempo mostrarsi neutro rispetto a una collocazione politico-ideologica che non scalda più i cuori di molti iscritti, ma potersi poi comunque mostrare inflessibile nell’opposizione al governo. Funzionale a ciò è l’obiettivo rivolto verso l’esterno, cioè quello di monopolizzare per qualche giorno la scena mediatica assegnando a sé stesso il ruolo di un operatore della Storia e alla sua organizzazione il ruolo di “corpo intermedio massimo”.
Si tratta di obiettivi raggiunti se si guarda al riscontro dell’agenda mediatica e al riconoscimento ottenuto da parte della Presidente del Consiglio. Un processo inoltre win-win, perché anche Giorgia Meloni ha avuto con la sua presenza e con il suo discorso l’opportunità di continuare a distanziarsi dall’ombrosa genealogia che contraddistingue il suo partito (si veda l’articolo di Francesco Seghezzi in questo Bollettino).
A una astuta ma classica affermazione di forza pare dunque essere funzionale in ultima istanza un invito che Landini, tra vari applausi, ha invece voluto spiegare come il segno della ricerca di un’innovazione del sindacato, perché “bisogna avere la capacità di ascoltare, se vogliamo essere ascoltati”. Un passaggio non trascurabile: quasi la proposta di una palingenesi culturale per il sindacato che storicamente è più vicino alla lotta dura e alla gloriosa sconfitta che alla disponibilità al compromesso.
Ora, è vero che il mutuo riconoscimento tra sindacato e governo non è liquidabile come un mero gioco delle parti, perché realizza la legittimazione istituzionale di entrambi, rilega ulteriormente a tentativo isolato e maldestro quello della disintermediazione renziana e marca una distanza rispetto a periodi di forti tensioni sociali (si veda l’articolo di Michele Tiraboschi in questo Bollettino).
Nemmeno si può dire che quella dell’ascolto sia stata solo una boutade. Sono stati tre i minuti di discorso sul punto. Inoltre la comunicazione di Landini volta alla ricerca di un riposizionamento della Cgil è in corso da tempo, visto che già nel 2019 ospite a Piazzapulita (La 7) precisava che il sindacato “non vuole il vecchio articolo 18, ma un nuovo Statuto dei lavoratori, che dia diritti alle persone a prescindere dalla tipologia del rapporto di lavoro”.
È infine vero anche che per le grandi organizzazioni i grandi e reali cambiamenti culturali richiedono anni se non decenni, anche ai tempi della fibra ottica e del 5g. Figuriamoci per un’organizzazione pachidermica (5 milioni di iscritti, quasi 80 anni di storia e più di 800 sedi in tutta Italia) e così legata a eredità simboliche e ideologiche come la Cgil. D’altronde lento è pure il cambiamento sociale, come quello che sta portando le giovani generazioni a identificare sempre meno la qualità del lavoro con la durata del contratto, ma con le condizioni materiali di trattamento.
Ma anche tutto ciò considerato, sul punto dell’ascolto casca comunque l’asino: ascoltare per fare cosa? Questa la domanda sottesa da Giorgia Meloni nel suo discorso quando ha parlato della possibilità di imparare delle posizioni contrarie alle proprie. Come a voler dire a Landini: “l’ascolto cercate. L’ascolto per fare quello che voi volete”. In che cosa si concretizza cioè questo ascolto? Quali ricadute avrà sul modus operandi del sindacato?
Landini è l’unico leader politico e sindacale ad essersi rifiutato di pronunciare la parola “patto” e anzi a dire esplicitamente che per lui non vuol dire nulla. Non che tutti coloro che hanno parlato di “patto” si siano poi anche solo avvicinati a delinearne concretamente uno (si veda F. Nespoli Dopo anni di sterili invocazioni, il Patto piange, Huffingtonpost.it). Per questo per esempio la Cisl di Luigi Sbarra sta per lanciare una campagna per una proposta di legge di iniziativa popolare sulla partecipazione dei lavoratori nella gestione dell’impresa. Landini ha però sempre parlato – anche durante la sua relazione al congresso – di “modello di sviluppo”. Più che un “patto” o un “accordo”, si tratta di una non ben definita idea di macroconfigurazione sociale, un pacchetto ideale, una proposta unilaterale, prendere-o-lasciare.
Se davvero la proposta dell’ascolto reciproco non è solo il veicolo formale per la legittimazione sostanziale del conflitto, ma il viatico per addivenire ad accordi ed ottenere risultati, perché allora la Cgil non evita di minacciare e organizzare scioperi ad ogni piè sospinto e, registrate le distanze, non sfida il governo con la proposta di contropartite, magari anche pesanti? Per esempio sul tema del lavoro a tempo determinato che sembra potrà animare il dibattito sulle politiche del lavoro del Governo e che è la cifra sintetica della trasformazione che la stessa Cgil vuole affrontare.
Francesco Nespoli
Ricercatore LUMSA