L’apprendistato di primo e terzo livello alla prova di maturità

Il 1° ottobre 2015 la Conferenza Stato-Regioni ha approvato lo schema di decreto interministeriale che definisce gli standard formativi e i criteri generali per la realizzazione dei percorsi di apprendistato cosiddetti di primo e terzo livello, in attuazione della riforma dei contratti di lavoro, operata con il Jobs act, dal decreto legislativo 81/2015.

 

Entro i tempi tecnici di firma e pubblicazione del decreto, l’Italia avrà una disciplina attuativa organica per le tutte le tipologie di apprendistato finalizzate al rilascio di titoli di studio e formazione di ogni ordine e grado, per le attività di ricerca e per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche.

 

Al di là delle valutazioni di merito sul provvedimento che in questa sede si presenterà per sommi capi, bisogna riconoscere al decreto l’ambizione di voler imprimere all’apprendistato per i titoli di studio e formazione, dopo oltre due lustri dalla riforma Biagi, una convinta accelerazione, puntando su:

– un quadro omogeneo di regole comuni a tutte le tipologie di apprendistato di primo e terzo livello;

– l’individuazione di un criterio semplice e flessibile per la determinazione della durata della formazione interna e di quella esterna (anche in rapporto agli effetti retributivi del contratto previsti dal decreto legislativo n. 81/2015 che introduce un regime di scambio tra formazione e retribuzione più attrattivo per le imprese);

– l’alleggerimento del carico amministrativo, in particolare per le imprese, attraverso la modellizzazione di un protocollo tra datore di lavoro e istituzione formativa, del piano formativo individuale e dei supporti strumentali per la valutazione.

 

A monte di queste misure, stanno i criteri di delega del decreto legislativo n. 81/2015 che nelle intenzioni vorrebbe più esplicita e pragmatica la strategia, già presente nelle riforme precedenti, di costruire, a partire dall’apprendistato, la cosiddetta via italiana al sistema duale dell’offerta di formazione e lavoro.

 

Brevi i tempi di predisposizione del decreto interministeriale: quattro mesi dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo 81/2015. Brevi i tempi previsti per il recepimento da parte delle Regioni e Province autonome: sei mesi dall’entrata in vigore del decreto interministeriale, trascorsi i quali, in caso di mancato recepimento, l’attivazione dei contratti è disciplinata attraverso l’applicazione diretta del decreto. A giudicare da questi elementi, appare chiara la volontà del legislatore di operare un cambio di rotta e di marcia rispetto all’attuale scarsa fortuna dell’apprendistato di primo e terzo livello, che, stando ai dati annuali del monitoraggio Isfol, ammonta a meno del 3% dei contratti di apprendistato attivati in Italia.

 

Ma quali sono dunque le novità di maggior rilievo del provvedimento di prossima emanazione?

Il primo obiettivo del decreto è quello di apportare maggiore chiarezza. A partire dalle definizioni all’articolo 2 e lungo tutto l’articolato, l’operazione preliminare è il tentativo di «districare la matassa» interpretativa di un terreno «decisamente accidentato», richiamando le parole del Sottosegretario Onorevole Luigi Bobba. Oltre alle definizioni di “datore di lavoro” e di “istituzione formativa”, funzionali al contesto in apprendistato, compare, dopo tanta esegesi, la definizione di formazione interna ed esterna. La formulazione, senza introdurre nulla di inedito nell’ordinamento rispetto a quanto già compiuto con il decreto legislativo n. 13/2013, chiarisce, auspicabilmente in modo definitivo, la pari dignità di quello che si impara lavorando e di quello che si impara studiando. Ne consegue che l’apprendimento, in queste tipologie di apprendistato, è di tipo formale sia in azienda sia nell’istituzione formativa, in quanto finalizzato al conseguimento di una certificazione pubblica, a prescindere dalle metodologie di insegnamento messe in campo (ad esempio frontale o work based).

 

Questa chiarificazione non è fine a sé stessa ma si connette operativamente ad almeno tre passaggi centrali del decreto:

– la determinazione della durata dei contratti di apprendistato, in rapporto agli standard formativi e ordinamentali dei corrispondenti percorsi di studio;

– la determinazione della durata della formazione interna e di quella esterna, in rapporto alla certificazione da conseguire;

– la determinazione dei contenuti del protocollo tra datore di lavoro e istituzione formativa nonché del piano formativo individuale.

 

Il decreto per ciascuno di questi tre aspetti va a disciplinare un quadro di criteri operativi applicabili a tutte le certificazioni di ogni ordine e grado.

 

Per quanto concerne la durata del contratto, all’articolo 4, viene assunta come riferimento, in via di principio, la durata ordinamentale del percorso di studio, fatte salve specifiche previsioni di proroga, in particolare per il primo livello, già definite nell’ambito del decreto legislativo n. 81/2015. Esemplificando, per il conseguimento di un percorso di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS), la cui durata ordinamentale è di un anno, il contratto di apprendistato potrà variare da un minimo di sei mesi (comune a tutti i contratti di apprendistato) ad un massimo di dodici mesi.

 

Con riguardo alla durata della formazione interna ed esterna, all’articolo 5, viene assunto a base di calcolo l’orario obbligatorio ordinamentale del percorso di studio. Rispetto al monte orario ordinamentale annuale, la formazione esterna è determinata fino un limite percentuale stabilito dal decreto per ciascun ordinamento in coerenza con i criteri sanciti nel decreto legislativo n. 81/2015; mentre la formazione interna è determinata per differenza tra il monte orario ordinamentale annuale e le ore di formazione esterna. Esemplificando, per il conseguimento di un percorso di Istruzione e Formazione Tecnica Superiore (IFTS) con un monte orario ordinamentale pari a 1000 ore, supponendo una formazione esterna di 500 ore (quale percentuale massima stabilita dal decreto) ne consegue una durata di formazione interna di ulteriori 500 ore; per differenza, sulla base dell’orario contrattuale annuale e dalla tipologia di assunzione (full time o part time) si determina anche il monte orario di attività di lavoro.

 

In riferimento poi agli allegati, mentre il protocollo tra datore di lavoro e istituzione formativa è modellizzato a determinare le diverse fattispecie di apprendistato che le parti si impegnano ad attivare e i relativi criteri di attivazione, nel piano formativo individuale sono definiti, sulla base della qualificazione da conseguire, la durata effettiva del contratto di apprendistato, la durata della formazione interna, di quella esterna e dell’orario di lavoro nonché i criteri e modalità di valutazione degli apprendimenti.

 

Sulla base dell’articolazione puntuale tra formazione e lavoro, identificata per annualità nell’ambito del piano formativo individuale, il datore di lavoro potrà determinare la retribuzione del lavoratore in base all’inquadramento applicato, alla contrattazione di riferimento e alle percentuali retributive stabilite nel decreto legislativo 81/2015 (100% per la parte di lavoro, 10% per la parte di formazione interna, esonero retributivo per la parte di formazione esterna, fatte salve diverse previsioni dei contratti collettivi).

 

Il piano formativo individuale, dunque, da una funzione di onere amministrativo che era andato assumendo negli ultimi interventi di riforma che lo volevano minimale o addirittura assente, riacquista centralità nella progettazione, programmazione, monitoraggio e valutazione degli apprendimenti e soprattutto nella gestione condivisa di queste fasi da parte dell’istituzione formativa e dell’impresa. Per questo motivo il piano formativo individuale è concepito in forma estremamente flessibile e adattabile e può essere modificato nel corso del rapporto, ad eccezione della qualificazione da conseguire, questo allo scopo di prevenire potenziali rischi di abusi, vertenze e contenzioni.

 

Fanno eccezione a questo impianto, bipartito tra impresa e istituzione formativa, l’apprendistato per le attività di ricerca e quello per il praticantato, per i quali, la formazione esterna non è obbligatoria.

Nell’articolato del decreto, inoltre, si rintraccia in più passaggi il tentativo di “mettere a sistema” molte delle previsioni anticipate e messe in campo con la cosiddetta sperimentazione Enel, tenendo conto anche di alcune prime restituzioni offerte dal monitoraggio del programma in corso. Questo è particolarmente evidente all’articolo 6 concernente i diritti e i doveri degli apprendisti e all’articolo 7 sulle funzioni del tutor aziendale e del tutor formativo.

 

Nell’articolo 8 riguardante la valutazione, oltre a valorizzare la sperimentazione Enel, il decreto prova a sdrammatizzare un certo tecnicismo generalmente rimproverato alla certificazione delle competenze, capitalizzando:

– sul piano concettuale, gli avanzamenti attuativi del decreto legislativo 13/2013 e in particolare il decreto interministeriale del 30 giugno 2015 sul riconoscimento a livello nazionale delle qualificazioni regionali;

– sul piano operativo, gli sviluppi applicativi dei servizi, come ad esempio la sperimentazione in corso, nell’ambito del Programma Garanzia Giovani, per la certificazione delle competenze acquisite in Servizio civile.

 

Questo sforzo si traduce concretamente in una dotazione strumentale di allegati tecnici volti a facilitare, esemplificare e accompagnare le pratiche di valutazione iniziale, intermedia e finale dei percorsi.

 

Una riflessione a parte la merita l’articolo 3, relativo ai requisiti per le imprese. Questo tema, rispetto agli altri più di tipo ordinamentale, amministrativo o economico, chiama in causa fattori peculiarmente culturali che, in prospettiva, giocano un ruolo fondamentale per il successo del sistema duale di istruzione e formazione. Per rendersene conto è sufficiente posare lo sguardo sulle realtà produttive, come quella tedesca, dove il sistema duale esiste da tempo e con buona dose di successo. In queste realtà le imprese (o i mastri artigiani) che fanno apprendistato, godono di una grandissima considerazione sociale, sia per il ruolo pubblicistico di cui si fanno carico, sia per gli investimenti materiali e organizzativi che sostengono per fronteggiare questa scelta. Insomma tutte le imprese possono attrezzarsi per “fare apprendistato”. Al contempo “fare apprendistato” non è per tutte le imprese. Questa è una conquista culturale che richiede innanzitutto tempo. Non aiutano norme iugulatorie e, a maggior ragione in Italia, dove il tessuto imprenditoriale è ancora tutto da fertilizzare. Prevale, sicuramente per questi motivi, nello spirito del decreto il proposito di promuovere e diffondere il più possibile lo strumento, laddove appaiono alleggeriti al minimo i requisiti delle imprese. Il limite che a un primo impatto ne potrebbe tuttavia scaturire è che lo sforzo di minimizzare i requisiti delle imprese, venga percepito in termini di genericità e incertezza, con l’effetto paradossale di indurre nelle imprese timori preventivi o titubanze per requisiti “nascosti”, supposti o presunti. O ancora per requisiti inattesi come la formazione sulla sicurezza, che, in analogia con l’alternanza scuola-lavoro, forse ci si immaginava a carico della istituzione formativa. Con la differenza non secondaria che, in Italia, l’apprendistato è, a tutt’oggi, un contratto di lavoro.

 

L’alternanza no.

 

Insomma, è ragionevole concludere che il decreto in questione reca i meriti e i limiti di essere una regolamentazione organica anche coraggiosa ma pur sempre di prima generazione di uno strumento complesso e politicamente anche molto sensibile, a coronamento poi di un decennio di esperienze sperimentali, sui territori, quantomeno sporadiche e frammentate.

 

Più di un segnale lascia intendere che nelle amministrazioni che hanno approvato lo schema di decreto vi sia una incoraggiante consapevolezza della necessità di procedere, in fase applicativa, con un approccio progressivo.

 

In questo senso si colloca la richiesta dalle Regioni e l’impegno assunto dal Ministero dell’istruzione di prevedere a breve una circolare che chiarisca ulteriormente i criteri di attribuzione dei crediti formativi nell’ambito dell’apprendistato per i titoli di studio universitari.

 

In questa logica di gradualità si va a inserire a pieno titolo anche la sperimentazione per il rafforzamento del sistema duale nell’ambito della Istruzione e formazione professionale approvata con Accordo Stato-Regioni il 24 settembre scorso, finalizzata alla costruzione di modelli condivisi di governance tra Ministero del lavoro e Regioni, su cui consolidare il nascente sistema duale di istruzione e formazione. Il decreto, nello specifico all’articolo 10, assicura alla sperimentazione l’immediata transizione alla nuova base giuridica del decreto legislativo 81/2015, consentendo, in questo modo, l’avvio immediato del programma.

 

Coerentemente con questo approccio progressivo, infine, all’articolo 9 del decreto, il monitoraggio dei percorsi viene funzionalmente collegato a successivi aggiornamenti del decreto.

 

Insomma, traguardando oltre i meriti e i limiti del decreto di oggi, l’impressione che si ricava è che, se le amministrazioni pubbliche sapranno “mantenere questa promessa”, soprattutto dando ascolto e voce a chi l’apprendistato lo vive, allora potrebbe essere giunto finalmente il momento in cui l’apprendistato di primo e terzo livello, in Italia, sia maturo per la prova dei fatti e non più solamente per il dibattito degli esperti.

 

Andrea Simoncini

Tecnologo ISFOL

 

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