Il direttore della scuola Oliver Twist Mele: «Inutile paragonarci alla Germania: se gli stipendi dei contratti d’inserimento da noi sono così alti un motivo c’è. E pure i sindacati hanno grandi responsabilità»
«Il primo grande tema è culturale». Di fronte all’emergenza della disoccupazione giovanile «ognuno si può mettere in gioco». Non è retorica, perché alla scuola Oliver Twist di Como funziona così. La formazione per i ragazzi è nata dall’esperienza di Cometa, organizzazione di volontariato e familiare impegnata nell’accoglienza e nell’educazione dei più piccoli. Alessandro Mele è il direttore generale.
Di cosa hanno bisogno i ragazzi oggi?
«La prima cosa che occorre loro è un aiuto a riconoscere che ce la possono fare. La disillusione, la mancanza di speranza, è una grande questione da affrontare in tempi rapidi. Bisogna accompagnarli nel riconoscimento della bellezza e della soddisfazione di un’esperienza che aiuta la costruzione di sé. Perché il lavoro non è solo un prezzo da pagare per ottenere un salario. Questo è il grande salto culturale che ognuno di noi deve favorire. Il lavoro è scoperta di se stessi e partecipazione all’esperienza del bene comune».
Questione di mentalità, quindi?
«Sì, soprattutto se tante volte il lavoro c’è ma non viene preso in considerazione. Magari perché non rispetta le competenze acquisite. Succede fin troppo spesso. Il ragionamento è “piuttosto che fare certi lavori me ne sto a casa”. Non c’è un lavoro degno e uno non degno. Il laureato che diventa contadino, ad esempio, inizia un percorso, un giorno potrà aprire un’azienda agricola che esporta. Il mondo è cambiato e l’Italia ha una visione provinciale».
In che senso?
«Rispondo con un esempio. Tempo fa faccio un colloquio a un ragazzo con una situazione lavorativa devastante. Emerge che il suo livello di inglese, però, è ottimo. Stupito, gli chiedo come sia possibile, dove lo abbia imparato. Aveva comprato un corso su eBay, venduto da un ragazzo di Bristol, che aveva deciso di insegnare la lingua attraverso Skype. E in periferia chi decide di esserlo. Quel ragazzo inglese ha colto un’opportunità fino a qualche anno fa inimmaginabile».
Le istituzioni e i soggetti “del mondo dei grandi”, nella pratica, cosa possono fare?
«Le aziende possono essere protagoniste. Garanzia Giovani (il piano europeo attivato anche in Italia, ndr) è un’opportunità concreta pure per loro, consente ai giovani di non restare troppo a lungo fermi, perché poi la situazione si complica. Bene anche la possibilità di studiare o di fare tirocinio».
Voi puntate in modo molto deciso sull’alternanza scuola lavoro. Oggi in molti dicono si debba guardare al sistema duale tedesco, imparare dalla Germania. Cosa ne pensa?
«Siamo uno dei pochi casi italiani che possono vantare un gran numero oggi sono 13 nella nostra realtà di apprendistati in alta formazione e ricerca. Siamo stati in Germania a studiare il sistema. Lì, però, hanno un approccio che mira all’addestramento: il lavoro ha una valenza addestrativa. La specificità italiana è che il lavoro è un giacimento culturale, un percorso di conoscenza e di crescita. Qui da noi, lavorare è partecipare alla costruzione di qualcosa. È questa dimensione ad aver reso il nostro Paese il più bello del mondo. Quello con le piazze più belle, i vestiti e le macchine più ammirate, i formaggi più buoni. Così abbiamo oggi l’opportunità di dare un contributo grande e originale al sistema della scuola. Affinché non accada più che le scuole tecniche siano ritenute “di serie B” e debbano liceizzarsi per rendersi degne della conoscenza. Nella nostra scuola si lavora perché ci sia unità tra il fare e la conoscenza, proprio come fondamento pedagogico, valido anche per i professori».
L’apprendistato, però, qui non decolla. Mentre i giovani tedeschi costano poco all’azienda, in Italia gli imprenditori ne hanno ancora quasi paura. Dunque?
«Bisogna essere realisti. Non possiamo fare paragoni con contesti troppo diversi dal nostro. In Italia il salario degli apprendisti è così alto perché c’è la volontà di non farlo decollare da parte di politica, sindacati, istituzioni. Le piccole imprese come potrebbero, con commesse di breve periodo, assumersi l’impegno di una persona che costa quanto un operaio specializzato, senza avere inoltre visibilità sui propri affari superiore ai sei mesi? Non si tratta del ritornello “gli imprenditori non vogliono investire”: l’apprendistato così com’è, con una durata minima di tre anni e con un costo così alto è più impegnativo di un matrimonio».
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«L'apprendistato non decolla perché la politica non lo vuole»