L’art. 8 dopo la sentenza della Corte Costituzionale: una prima lettura

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Bollettino ADAPT 3 aprile 2023, n. 13
 
Con la sentenza 28 marzo 2023, n. 52, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale sull’art. 8 del decreto-legge n. 138 del 2011, sollevata lo scorso anno dalla Corte di Appello di Napoli. Secondo il giudice delle leggi, la Corte di merito non avrebbe riportato delle adeguate motivazioni nella ordinanza di remissione, tale da ricondurre la casistica posta alla sua attenzione dalle parti alla fattispecie prevista dalla legge, cioè l’art. 8 (v. punto 3 del Considerato in diritto). Prima di entrare nel merito degli aspetti tecnico-giuridici, occorre subito evidenziare che una pronuncia in senso contrario avrebbe impattato non poco sull’attuale sistema di relazioni industriali, che in diverse occasioni ha fatto ricorso a questa disposizione, nonostante i sindacati abbiano spesso “occultato” i testi contrattuali a fronte di un presunto obbligo di deposito (sul punto, cfr. circolare dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, 30 luglio 2020, n. 3).
 
Data l’efficacia ex tunc delle pronunce di incostituzionalità (art. 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87), il legislatore e le parti sociali si sarebbero dovuti far carico di gestire una fase transitoria (introducendo una legge o un accordo collettivo, anche interconfederale, per disciplinare gli effetti derivanti da una potenziale pronuncia di incostituzionalità) non solo rispetto ai rapporti di lavoro già esauriti (regolati in virtù di un contratto di prossimità; in questo senso si pensi ai tanti accordi stipulati in deroga al Decreto Dignità, come emerge dal VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia) nei limiti, però, dei termini di prescrizione o decadenza per l’esercizio dei relativi diritti e per i quali non si sia formato il giudicato; ma anche rispetto a quelli in corso. Tuttavia, le cose sono andate diversamente.
 

Entrando nel merito degli aspetti giuridici, possiamo dire che la sentenza non porta nulla di nuovo alla luce del sole poiché è noto che l’inammissibilità della questione di legittimità proposta può essere determinata anche dal fatto che la questione sia stata sollevata dal giudice in maniera generica, ipotetica o contraddittoria (C. Cost. 26 ottobre 2007, n. 351) o perché vi è un difetto di un’adeguata motivazione in ordine alla rilevanza e/o non manifesta infondatezza della questione (C. Cost. 31 ottobre 2007, n. 363).
 
Per giustificare tale decisione, la Corte fornisce una motivazione robusta, “rimproverando” e “puntualizzando” al giudice di Napoli tutti gli elementi che sono mancati nell’ordinanza per poter poi consentire al giudice delle leggi di potersi interrogare sulla fondatezza o meno della questione sollevata. Al riguardo, la Corte osserva che:

a) non emerge dall’ordinanza di remissione se oggetto del giudizio sia un contratto aziendale ordinario o un contratto aziendale di prossimità, in possesso di tutti i requisiti prescritti dalla legge;

b) relativamente all’organizzazione sindacale abilitata dalla legge alla sottoscrizione di detti accordi, l’ordinanza nulla dice sul grado di rappresentatività, che peraltro deve essere valutato non secondo il criterio della “maggiore rappresentatività” ma secondo il criterio della “rappresentatività comparativa”, criterio selettivo e non inclusivo, proprio sulla scorta di quanto stabilito dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato richiamata dalla sentenza (v. punto 5.1 del Considerato in diritto);

c) relativamente alla sottoscrizione dell’accordo secondo il criterio maggioritario adottato per far si che il contratto collettivo di prossimità possa produrre effetti erga omnes, la Corte rileva come nell’ordinanza il giudice nulla dica rispetto alle procedure adottate dalle parti stipulanti per verificare se queste rispettino o meno detto criterio, tant’è che è possibile anche dubitare come e quando i lavoratori abbiano espresso il proprio dissenso (secondo la Corte, questo sarebbe stato espresso comunque durante la vigenza dell’accordo e non al momento della stipula; v. punto 5.2 del Considerato in diritto);

d) anche sulle finalità e sulle materie regolate dall’accordo – che sono pacificamente tassative – la Corte rimprovera la laconicità della ordina di remissione, la quale si sarebbe limitata solo a riportare alcuni aspetti rispetto alle prime (genericamente, l’accordo sarebbe stato negoziato per favorire l’incremento dell’occupazione) e, rispetto alle materie, a denunciare un presunto “peggioramento delle condizioni economiche dei lavoratori”, non consentendo così una adeguata indagine per l’accertamento della illegittimità costituzionale della disposizione in questione (v. punto 5.3 del Considerato in diritto).
 
Questo, in sintesi, ciò che la Corte ha detto nella sentenza n. 52 del 2023.
 
Il giudice delle leggi pare abbia voluto dire tra le righe al giudice rimettente che l’interpretazione restrittiva della disposizione data dalla giurisprudenza prevalente non possa dirsi vincolante solo per imprese, sindacati, lavoratori e operatori del mercato del lavoro ma anche per quanti vogliano sollevare una questione di costituzionalità, essendo necessario descrivere in modo rigoroso la fattispecie censurata nel giudizio di merito per poi poterla rapportare alla fattispecie legale e denunciarne i vizi di costituzionalità.
 
Potremmo dire che la vicenda si sia conclusa con una sorta di contrappasso di dantesca memoria, giacché la giurisprudenza di merito ha da sempre “ammonito” i contratti di prossimità non sottoscritti dai soggetti individuati dalla disposizione di legge e laddove le parti non li abbiano qualificati esplicitamente come tali (cioè intese ex art. 8), oltre a dichiarare illegittimi quelli non rispondenti in modo rigoroso ai requisiti e limiti imposti dalla norma (cioè senza indicare e specificare in concreto le finalità perseguite e le materie oggetto di negoziazione). Salvo poi ritrovarsi a “patire” la stessa sorte.
 
In altri termini e fuor di metafora, per quanto possa sembrare a prima vista una soluzione “pilatesca”, la sentenza della Corte, invece, pare essere coerente con quanto il diritto vivente (rectius, l’orientamento giurisprudenziale prevalente) ha sostenuto fino ad oggi, ovvero che “al fine di verificare se un accordo [aziendale] rientri tra quelli di prossimità occorre accertare non soltanto che le organizzazioni sindacali stipulanti siano maggiormente rappresentative sul piano nazionale o territoriale (…), ma anche che la volontà delle parti di stipulare un contratto ex art. 8 D.L. n. 138/2011 sia riconoscibile dal testo dell’accordo, dovendo essere esplicitati il fine perseguito (tra quelli indicati dalla legge), le norme cui si intende derogare e il nesso eziologico tra fini e deroghe” (Trib. Civitavecchia, 17 dicembre 2020, ma in senso conforme vedi anche App. Firenze, 20 novembre 2017; Trib. Firenze 4 giugno 2019, nonché Trib. Milano, 30 luglio 2020; in senso contrario Trib. Venezia, 16 agosto 2013).
 
In realtà, come molte volte accade, c’è anche un “non detto” in questa sentenza, che da un lato conferma la legittimità costituzionale dell’art. 8, ma dall’altra potrebbe spianare la strada a nuovi problemi (anche di costituzionalità).
 
Stabilito al punto 3 del Considerato in diritto che la questione sollevata dalla Corte di Appello di Napoli è inammissibile in quanto l’ordinanza non offre elementi idonei a compiere un giudizio di legittimità costituzionale, il successivo punto 4 del Considerato in diritto, nel dedicarsi ad una analitica descrizione degli elementi che configurano la intesa di prossimità così come definita dall’art. 8 del decreto-legge n. 138 del 2011 (alla stregua di un vero e proprio “manualetto” su come stipulare una intesa di prossimità), riporta un passaggio cruciale e rilevante, quasi un obiter dicutm, nel quale la Corte ricorda il “carattere chiaramente eccezionale” della disposizione, in linea con una precedente decisione (C. Cost. 4 ottobre 2012, n. 221), tale da giustificare il potere di deroga, finanche l’efficacia erga omnes al ricorrere di determinate condizioni in fase di sottoscrizione dell’accordo.
 
Nel rimarcare più volte l’eccezionalità della disposizione (almeno 3 volte nel punto 4), possiamo ritenere che la Corte abbia voluto (non) dire che il controllo di legittimità trova pur sempre un limite innanzi alla discrezionalità del potere legislativo?
 
Più problematico, invece, appaiono i passaggi piuttosto fugaci (ma pur sempre logici) contenuti al punto 2 del Considerato in diritto, laddove la Corte, nel prendere atto del fatto che “il testuale ampio richiamo ai contratti «aziendali o di prossimità» possa essere inteso come riferimento a tutte le fattispecie di contratto collettivo di secondo livello (id est non nazionali), previste dalla disposizione censurata, ossia tanto a quelli aziendali che territoriali”, ritiene che “le questioni di legittimità costituzionale siano state poste, in realtà, con riferimento al solo contratto collettivo aziendale di prossimità e non anche a quello territoriale”.
 
In questo senso, viene da chiedersi quale sarebbe stato l’esito del giudizio se in realtà la questione sottoposta alla Corte avesse dato l’opportunità al giudice delle leggi di vagliare la legittimità costituzionale dell’art. 8 anche rispetto ai contratti territoriali. Perché la questione, forse, è tutta qui: è piuttosto evidente che i contratti collettivi aziendali, vuoi perché sottoscritti in forza di una disposizione eccezionale di legge (purché ne ricorrano tutti i presupposti), vuoi perché sottoscritti secondo le logiche “ordinarie” delle relazioni industriali, mirano a comporre sempre gli interessi di una comunità aziendale che, come ricorda la Corte, sono tendenzialmente indivisibili e richiedono, perciò, una disciplina unitaria.
 
Ma superato il confine aziendale, come giustificare da un punto di vista costituzionale (e cioè rispetto all’art. 39 Cost.), l’esigenza di una disciplina unitaria rispetto ad interessi che non hanno più un confine stabile come quello aziendale ma molto più sfumati (ovvero, quelli del territorio)? E’ su questo aspetto che forse la riflessione giuslavoristica dovrebbe aprire un nuovo fronte di riflessione, toccato in termini dubitativi da Riccardo Del Punta ma non più ripreso: con riferimento alle intese di prossimità è necessario, secondo Del Punta, chiarire cosa debba intendersi per livello “territoriale”, e cioè se questo possa intendersi anche «come equivalente di sub-nazionale, nel senso che possono rientrare dimensioni diverse (regionale, provinciale, di distretto, etc.)» o altro (R. Del Punta, Cronache da una transizione confusa (su art. 8, l. n. 148/2011, e dintorni), in LD, 2012, n. 1, pp. 31-53, spec. p. 43).
 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore presso il Dipartimento di Economia “M. Biagi”
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

L’art. 8 dopo la sentenza della Corte Costituzionale: una prima lettura