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È noto che uno dei moderni problemi che il diritto si trova a fronteggiare è la sua certezza. Il continuo mutare delle norme incide negativamente su di essa, finendo così per smarrirsi in un groviglio di disposizioni di difficile attuazione. A ciò bisogna aggiungere che risposte giudiziarie tardive – anche a causa dell’ormai noto problema degli eccessivi carichi pendenti, nonostante i diversi strumenti deflattivi presenti nell’ordinamento – forniscono soluzioni non più adeguate al concreto manifestarsi dell’esigenza in un determinato tempo e luogo. In tale quadro, si fa sempre più strada una prassi interpretativa delle norme di legge, di matrice non giudiziaria ma proveniente dal mondo della rappresentanza degli interessi (organizzazioni sindacali, associazioni d’impresa) o dal mondo professionale (sindacato dei professionisti, ordini professionali). È difficile dire che questa prassi possa essere considerata una “fonte”, seppur in senso a-tecnico, al pari di una sentenza, giacché l’attività dell’interprete rilevante sul piano giuridico è quella che la legge affida al giudice. Tuttavia, le circolari interpretative emanate da questi enti possono essere inquadrate come chiarimenti o esplicitazioni resi da soggetti dotati di particolare competenza e specializzazione tecnica, di riconosciuta autorevolezza e credibilità, tali da ingenerare un effetto di moral suasion rispetto ad una determinata cerchia di destinatari. Così l’associazione delle imprese potrà indirizzare i propri associati ad applicare in un determinato modo le disposizioni, così come un ordine professionale potrà fornire alcune interpretazioni del quadro normativo in favore dei professionisti iscritti all’albo.
È in questo contesto di riferimento che vanno ascritte le recenti circolari emanate da AssoLavoro del 17 settembre 2018 in materia di lavoro in somministrazione, dalla Fondazione Studi dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro (volta ad illustrare per punti il contenuto della l. n. 96/2018) e da parte dell’ANCL, l’Associazione Nazionale dei Consulenti del Lavoro, che invece si è limitata a mettere in luce alcune problematiche di carattere applicativo della nuova disciplina dei rapporti di lavoro a termine. Le circolari in questione si concentrano sull’analisi del mutato quadro normativo in materia di lavoro a termine e di lavoro in somministrazione – regolati all’interno del d.lgs. n. 81/2015 e modificato dal recente d.l. n. 87/2018, convertito in l. n. 96/2018 (c.d. Decreto Dignità) – e su alcune delle problematiche connesse all’applicazione della nuova disciplina, in modo da accompagnare l’operatività quotidiana degli interessati, colmando possibili (o presunte) lacune interpretative e potenzialmente destabilizzanti per la regolazione del mercato del lavoro.
Il ruolo della contrattazione collettiva
In particolare, la circolare del 1° ottobre 2018 dell’ANCL riflette preliminarmente su un aspetto centrale e di sistema della nuova disciplina del lavoro a termine. Infatti, la formulazione dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015 ([1]) si presenta alquanto generica e soggetta ad una varietà di interpretazioni, che in questo momento storico potrebbero indurre l’impresa nell’incertezza e quindi a non usufruire della tipologia contrattuale flessibile. Gli accordi individuali sarebbero, infatti, continuamente esposti ad un sindacato giudiziale non uniforme e instabile, attese le diverse sensibilità interpretative. Si è, ad esempio, ipotizzato che le condizioni imprevedibili legate ad esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività potrebbero concretizzarsi in cause di forza maggiore (calamità naturali, etc.), mentre le esigenze di sostituzione di altri lavoratori potrebbe riguardare le assenze per ferie (prevedibili) o quelle per maternità, infortunio, malattia, etc. (imprevedibili). Per quanto concerne le esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria quale, ad esempio, una commessa di lavoro una tantum, urgente e non realizzabile con il normale organico aziendale, è l’ipotesi concreta che molti hanno immaginato ma è pur vero che non tutti i settori produttivi sono caratterizzati da questo particolare modo di produzione.
Così, avendo a mente il crescente ruolo che l’autonomia collettiva ha nell’impianto del d.lgs. n. 81/2015 (l’art. 51, infatti, rinvia ai contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, territoriale o aziendale l’esercizio di alcune funzioni di delega normativa o di deroga alla legge), la circolare riflette sul fatto che la medesima funzione normativa possa essere assunta per specificare il contenuto delle clausole sancite all’art. 19, comma 1, lett. a) e b) del d.lgs. n. 81/2015, seppure la legge nessuna delega dispone in merito. In questo senso, la contrattazione collettiva potrebbe definire l’esigenza temporanea e oggettiva tipica di un determinato settore produttivo, le esigenze di carattere sostitutivo, l’incremento produttivo temporaneo, significativo e non programmabile di ogni singolo settore produttivo, considerate le sue peculiarità. Infatti «ciascun contratto collettivo» è «in grado di offrire regole “vestite su misura” della categoria all’indefinito ed indistinto panorama di lavoratori che, in un dato tempo, saranno impiegati in certe attività» ([2]). La riflessione è volta così a mettere in luce che l’intervento dell’autonomia collettiva risulterebbe utile ai tanti Consulenti che, nell’assistere le imprese, si troveranno a breve a dover rinnovare alcuni contratti. Avere un quadro normativo ben definito, dove la fonte legale è permeata di indicazioni operative da parte della fonte collettiva, aiuterebbe le imprese a non esporsi ad un contenzioso dannoso; servirebbe alla giurisprudenza come “parametro” per sindacare sulla genuinità del contratto a termine; ed, infine, potrebbe essere uno strumento volta a far “resistere” a quelle “scorciatoie” del mercato del lavoro, che portano ad una proliferazione di contratti illegittimi.
Le causali: alcuni esempi concreti
La circolare prosegue nell’analisi della normativa volgendo l’attenzione ai problemi operativi più importanti tra i quali: l’apposizione della causale, il regime transitorio, l’impugnativa del contratto a termine, l’obbligo della consegna del contratto e la clausola di contingentamento in presenza di rapporti a termine e in somministrazione a termine nella medesima azienda. Rispetto alla causale, l’ANCL tenta di calare il dato normativo nelle diverse realtà produttive, formulando delle ipotesi di utilizzo del contratto a termine per vagliarne la possibile legittimità. Così, nel settore commerciale, è stato ipotizzato che una catena di negozi di abbigliamento abbia bisogno di assumere a termine alcuni lavoratori per gestire la vendita straordinaria di alcuni abiti, per circa un mese. Il numero di abiti, tuttavia, non è eccessivo tale da incidere notevolmente sul fatturato dell’impresa. In tale quadro, troverebbe applicazione la lettera b) dell’art. 19, comma 1 in quanto si è in presenza di un’attività di lavoro ordinaria (poiché si tratta comunque di vendita), che è temporanea e non è stata programmata (quindi improvvisa) ma la “significatività” dell’esigenza temporanea (si tratta solo di un mese) e dell’incidenza del guadagno sul fatturato (sarebbe minima) presentano aspetti critici. In tale contesto, è dubbio che il ricorso al lavoro a termine possa reggere in termini di legittimità. Diverso, invece, è il caso, ad esempio, di un’azienda calzaturiera, che produce sandali. Nel caso in cui questa dovesse ottenere una commessa da un nuovo cliente (con il quale non ci sono stati rapporti lavorativi precedenti, né erano in corso trattative commerciali), per la produzione di un ingente quantitativo di sandali per soli sei mesi, sarebbe possibile ricorrere al lavoro a termine poiché l’incremento di lavoro è “temporaneo”, “non programmabile” e “significativo” nei volumi prodotti. Si ricadrebbe legittimamente nell’art. 19, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 81/2015. Al contrario, è da escludere il legittimo utilizzo della tipologia contrattuale nel caso in cui un’impresa che si occupa di logistica deve far fronte alla gestione di un nuovo magazzino, affidatole da un cliente “storico”. Posto che la trattativa si è protratta per alcuni mesi e la commessa, pur essendo temporanea, richiede tre giorni al mese di attività da parte di quattro sui centottanta addetti nell’impresa, non sarebbe possibile assumere quattro lavoratori a termine per gestire l’incarico, perché l’incremento non si configura come “significativo” e “non programmabile”. Con riferimento all’art. 19, comma 1 lett. a), invece, la circolare ipotizza che questa disposizione possa trovare applicazione – oltre che nelle ipotesi sostitutive classiche (ferie, malattia, infortunio, gravidanza) – nel caso in cui un’impresa, producente particolari oggetti meccanici, acquisisce attraverso una commessa la lavorazione di un nuovo e differente prodotto in via sperimentale, del tutto estranea all’attività ordinaria. Si tratta, quindi, di far fronte ad un’esigenza temporanea, non rientrante nell’attività ordinaria e legata alla necessità di sperimentare la produzione del prodotto.
Il regime transitorio
Con riguardo al c.d. regime transitorio, introdotto dalla l. n. 96/2018, la circolare dell’ANCL individua sette casistiche nell’ambito delle quali potrebbe trovare applicazione un regime normativo piuttosto che un altro.
Casistica | Regime normativo |
1) Contratto a termine stipulato prima del 14 luglio 2018 |
In questo caso, la durata del contratto può estendersi fino a 36 mesi ed anche se è privo della c.d. causale; restano fermi tutti i limiti previsti dalla formulazione originaria dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015.
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2) Contratto a termine stipulato prima del 14 luglio 2018 con scadenza prima del 1° novembre 2018 |
Salvo il caso in cui il contratto sia stato rinnovato nel periodo di vigenza del d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. Decreto Dignità), potrebbe essere prorogato o rinnovato sulla base della precedente versione del d.lgs. n. 81/2015 cioè senza indicare la causale, con il limite di 5 proroghe e con il tetto temporale di 36 mesi complessivi e con il rispetto dell’intervallo temporale in caso di rinnovo. La proroga o il rinnovo che interviene prima del 1° novembre 2018 può prolungare la durata del contratto anche oltre questa data giacché ciò che rileva sono le regole applicabili al momento della stipula dell’atto negoziale (che, lo ribadiamo, deve avvenire entro e non oltre il 31 ottobre 2018).
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3) Contratto a termine stipulato prima del 14 luglio 2018 con scadenza a partire dal 1° novembre 2018 |
Il contratto potrà essere prorogato o rinnovato solo sulla base e nei limiti della nuova disciplina, ivi compreso il limite complessivo dei 24 mesi, per il cui computo vale il periodo già trascorso, impedendo proroga e rinnovo ove questo avesse già superati i due anni. Secondo un’altra interpretazione del dato normativo, in questo caso, sarebbe possibile per le parti negoziare entro il 31 ottobre 2018 la proroga o il rinnovo, usufruendo così del regime transitorio previsto dalla legge di conversione. Ciò in quanto la disciplina del regime transitorio si applica al momento della stipula e non dell’effettivo inizio della proroga o del rinnovo.
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4) Contratto a termine stipulato a partire dal 14 luglio 2018 con scadenza prima del 1° novembre 2018 |
Il contratto a termine è certamente assoggettato alla nuova disciplina. Tuttavia, sono state avanzate delle ipotesi interpretative volte a ritenere che, in virtù del regime transitorio introdotto dalla l. 9 agosto 2018, n. 96 secondo cui “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”, la dilazione al 1° novembre dell’applicazione del nuovo regime di proroga e rinnovo sia riferita anche per i contratti a termine stipulati sotto la vigenza del Decreto Dignità (14 luglio -12 agosto 2018). Secondo alcuni interpreti (F. Scarpelli, Convertito in legge il “decreto dignità”: al via il dibattito sui problemi interpretativi e applicativi”, in Giustizia Civile, n. 9/2018, p. 14), si tratterrebbe di una forzatura letterale poiché il d.l. 12 luglio 2018, n. 87 (c.d. Decreto Dignità) prevede che “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe”. La norma parla quindi di applicazione a tutti gli atti negoziali (stipula, proroga o rinnovo) e non differenza le discipline in base all’entrata in vigore. Sembra, dunque, coerente ritenere che ad un contratto a termine stipulato dopo il 14 luglio 2018 e con scadenza entro il 3 ottobre, si applichi per intero la nuova disciplina, mentre il regime transitorio resta valido per i contratti stipulati prima del 14 luglio 2018.
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5) Contratto a termine stipulato a partire dal 14 luglio 2018 con scadenza a partire dal 1° novembre 2018 |
In questo caso, non v’è dubbio che si applichi la nuova disciplina (cioè quella del d.l. 12 luglio 2018, n. 87 convertito in l. 9 agosto 2018, n. 96). Tuttavia, c’è chi ritiene che in questo caso sia possibile anticipare il rinnovo o la proroga entro il 31 ottobre 2018, in modo da poter usufruire del regime transitorio della legge di conversione del decreto legge. Ma ciò non è possibile per le ragioni sopra esposte (cfr. ipotesi n. 4), giacché il contratto a termine è stato comunque stipulato a partire dal 14 luglio 2018.
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6) Contratto a termine stipulato prima del 14 luglio 2018, prorogato o rinnovato dopo l’entrata in vigore del Decreto Dignità ma prima dell’entrata in vigore della legge di conversione (14 luglio – 11 agosto 2018) |
L’ipotesi si confronta con il complesso dibattito in atto circa l’efficacia intertemporale delle norme del decreto legge modificate dalla legge di conversione. A parere dell’orientamento giurisprudenziale prevalente in merito, le norme del decreto modificate e non soppresse mantengono la loro efficacia per il periodo in cui sono state vigenti, salvo che la legge di conversione non disponga specifiche indicazioni in merito (cfr. Cass. n. 9386/2016). La conseguenza di questa interpretazione è che gli atti giuridici compiti in tale periodo (nel nostro caso, dal 14 luglio all’11 agosto 2018) sono disciplinati dalle norme del decreto (non modificato dalla legge di conversione). Quindi, in questo caso, per il contratto rinnovato trova applicazione il tetto temporale dei 24 mesi, la causale per qualsiasi rinnovo così come per le proroghe che dovessero superare i 12 mesi.
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7) Contratto a termine stipulato a partire dal 14 luglio 2018, prorogato o rinnovato dopo l’entrata in vigore del Decreto Dignità ma prima dell’entrata in vigore della legge di conversione (14 luglio – 11 agosto 2018) |
Anche in questo caso, come nel caso della ipotesi n. 6, si ritiene debba applicarsi la disciplina del decreto legge pre-conversione. E per le ragioni espresse nelle ipotesi nn. 4 e 5, si ritiene che trovi applicazione la nuova disciplina e non il regime transitorio. In questo caso, alcune perplessità rimangono per quanto disposto dall’art. 19-bis del d.lgs. n. 81/2015 secondo cui “in caso di stipulazione di un contratto di durata superiore a dodici mesi in assenza delle condizioni di cui al comma 1, il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato dalla data di superamento del termine di dodici mesi”. Questa disposizione è stata inserita nella legge di conversione, essendo assente nel decreto legge. Di conseguenza, coerentemente con quanto detto nell’ipotesi n. 6, per i contratti stipulati tra il 14 luglio e l’11 agosto, non troverebbe applicazione la sanzione dell’art. 19-bis perché inserita solo in sede di conversione.
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La consegna della copia del contratto a termine. In caso di violazione, quale sanzione?
Il comma 4 dell’art. 19 ha destato qualche preoccupazione circa la sanzione applicabile nel caso in cui non venga consegnata copia del contratto sottoscritto al lavoratore. Sul punto, la circolare offre qualche chiarimento sulla base delle precedenti pronunce giurisprudenziali. L’art. 1, comma 3 del d.lgs. n. 368/2001 – oggi abrogato – prevedeva che “copia dell’atto scritto deve essere consegnata al lavoratore cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione”. Non era prevista alcuna sanzione in caso di violazione di tale previsione. Tale previsione ricompare nel nuovo testo dell’art. 19 del d.lgs. n. 81/2015, al comma 4, ove è previsto che “con l’eccezione dei rapporti di lavoro di durata non superiore a dodici giorni, l’apposizione del termine al contratto è priva di effetto se non risulta da atto scritto, una copia del quale deve essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall’inizio della prestazione. L’atto scritto contiene, in caso di rinnovo, la specificazione delle esigenze di cui al comma 1 in base alle quali è stipulato; in caso di proroga dello stesso rapporto tale indicazione è necessaria solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”. Anche in questo caso, come nelle disposizioni del d.lgs. n. 368/2001 e prima ancora in quelle della legge n. 230/1962, manca una specifica sanzione in caso di non ottemperamento a tale obbligo. Al riguardo, il consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di contratto a termine, la mancata consegna al lavoratore di una copia dell’atto scritto non determina la nullità dell’apposizione del termine, poiché tale sanzione non è prevista dalla legge. In particolare, la Corte di Cassazione ha precisato che “il mancato rispetto della norma, posta dall’art. 1, comma 4, legge n. 230/1962, che prescrive la consegna al lavoratore di una copia dell’atto scritto in caso di assunzione con contratto a termine, non determina la nullità dell’apposizione del termine, perché tale sanzione non è prevista dalla legge (diversamente che per la mancata redazione dell’atto scritto) e, d’altra parte, tale adempimento costituisce un elemento del tutto estrinseco ai requisiti essenziali del contratto” (Cass. 6 maggio 1998, n. 4582).
La circolare precisa che i cinque giorni per la consegna dell’atto scritto decorrono dall’inizio della prestazione e non dalla sottoscrizione del contratto stesso. Pertanto, a titolo esemplificativo, se il contratto di lavoro a termine tra un’azienda che organizza i turni in cinque giorni lavorativi e un lavoratore viene sottoscritto il giorno venerdì 31 gennaio 2014 con inizio del rapporto di lavoro il giorno lunedì 3 febbraio, il termine finale per la conseguenza del contratto al lavoratore sarà il giorno lunedì 10 febbraio 2014. Resta fermo che il datore di lavoro è tenuto a comunicare l’assunzione a termine del lavoratore attraverso la procedura delle comunicazioni obbligatorie on line agli uffici competenti, entro le ore 24.00 del giorno precedente l’inizio del rapporto di lavoro. Per inizio del rapporto di lavoro si intende la data da cui decorrono l’obbligo della prestazione lavorativa e l’obbligo della remunerazione, che normalmente si desume dal libro matricola. Se l’ultimo giorno utile cade in un giorno festivo non si può far valere la regola della proroga automatica del termina al giorno successivo, poiché ciò equivarrebbe a vanificare la finalità della comunicazione agli uffici competenti che deve essere precedente l’inizio del rapporto di lavoro. In tali casi la comunicazione può essere fatta in un giorno precedente, non festivo, ovvero nel giorno festivo con gli strumenti disponibili, purché comprovanti la data certa di trasmissione. Va anche ricordato che il d.lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, art. 6, stabilisce che, all’atto dell’assunzione, il datore è tenuto a informare, per iscritto, i dipendenti delle condizioni contrattuali ex d.lgs. n. 152/1997.
L’impugnazione del contratto a termine
Anche sui nuovi termini per impugnare il contratto a termine, la circolare riporta le diverse interpretazioni fornite. L’art. 28 del d.lgs. n. 81/2015 così come modificato dal Decreto Dignità prevede al comma 1 che “l’impugnazione del contratto a tempo determinato deve avvenire, con le modalità previste dal primo comma dell’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, entro centottanta giorni dalla cessazione del singolo contratto”. È stato ripristinato il c.d. “termine lungo” (180 giorni) poiché, precedentemente, era stato ridotto a 120 giorni. L’impugnazione deve quindi essere in forma scritta o comunque “con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore” di voler impugnare il contratto. L’art. 28 prevede che “trova altresì applicazione il secondo comma del suddetto articolo 6” della legge n. 604/1966. Ciò vuol dire che, una volta impugnato il contratto stragiudizialmente e con le modalità di cui all’art. 6, comma 1 della legge n. 604/1966, è necessario “entro il successivo termine di centottanta giorni”:
a) depositare il ricorso presso la cancelleria del giudice del lavoro territorialmente competente, pena l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale e l’improcedibilità del ricorso (cfr. art. 6, comma 2 della legge n. 604/1966);
b) in alternativa, presentare comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato.
Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo. È sempre possibile produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso (cfr. art. 6, comma 2 della legge n. 604/1966).
Il nuovo regime dell’impugnativa presenta un punto controverso: ai fini dell’applicazione del nuovo regime, rileva il momento della stipulazione del contratto a termine o quello della sua cessazione? Secondo i principi generali ogni atto e, quindi, anche quello di impugnazione del contratto a termine è disciplinato dalla legge vigente al momento in cui deve essere compiuto. Nel caso in esame il dies a quo, secondo l’art. 28, comma 1, decorre “dalla cessazione del singolo contratto” a termine. Così sembrerebbe che il termine di 180 giorni si applicherebbe ai contratti cessati dal 14 luglio in poi, anche se stipulati prima di questa data (e quindi, sotto la vigenza della precedente disciplina). Tuttavia, secondo un’altra lettura interpretativa della norma, è vero che l’art. 1, comma 2 del Decreto Dignità (d.l. n. 87/2018) prevede espressamente che “le disposizioni di cui al comma 1”, tra le quali rientra anche quella di estensione del termine di impugnazione (lett. c), “si applicano ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto”. Ciò indurrebbe a pensare che per un contratto a termine stipulato prima del 14 luglio, troverebbe applicazione il precedente termine d’impugnazione (120 giorni).
Il limite legale all’utilizzo del lavoro a termine e in somministrazione a termine
Relativamente, infine, al rapporto di lavoro in somministrazione a tempo determinato, l’art. 31 comma 2 del d.lgs. n. 81/2015, prevede che “salva diversa previsione dei contratti collettivi applicati dall’utilizzatore e fermo restando il limite disposto dall’articolo 23, il numero dei lavoratori assunti con contratto a tempo determinato ovvero con contratto di somministrazione a tempo determinato non può eccedere complessivamente il 30 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore al 1° gennaio dell’anno di stipulazione dei predetti contratti, con arrotondamento del decimale all’unità superiore qualora esso sia eguale o superiore a 0,5”. La circolare osserva che con questa norma, il legislatore intende precisare che il limite per l’utilizzo del rapporto a termine resta quello di cui all’art. 23 (20%) ma, nel caso in cui il datore di lavoro assuma anche personale in somministrazione a tempo determinato, la somma tra i lavoratori a termine e quelli in somministrazione a termine non può superare il 30%. Questa volontà emerge in modo chiaro laddove la norma pone il limite considerando “complessivamente” sia i contratti a termine che quelli di somministrazione a termine. L’ANCL osserva che la norma presenta un’impostazione del tutto differente rispetto al vecchio testo del d.lgs. n. 81/2015 laddove all’art. 31, comma 2 il legislatore aveva affidato alla contrattazione collettiva il compito di fissare un limite all’utilizzo della tipologia contrattuale, non prevedendo alcun limite legale. Questo “vuoto” normativo ha dato luogo ad un acceso dibattito poiché una parte della dottrina ha ritenuto che qualora la contrattazione collettiva (nazionale o aziendale) non disponga un tetto massimo, è possibile assumere in modo illimitato i lavoratori in somministrazione a termine; altra dottrina, invece, ha ritenuto che trovi applicazione il limite previsto per il rapporto di lavoro in somministrazione a tempo indeterminato (20%) o comunque quello previsto per il rapporto a termine (20%), dato che la giurisprudenza ha chiarito che il contratto di somministrazione a termine è una sub-specie del contratto a termine (al quale va applicata anche la disciplina per l’impugnazione) ([3]). Infine, un’altra lettura riteneva che per utilizzare la tipologia contrattuale occorre necessariamente un accordo sindacale nel caso in cui la contrattazione collettiva nulla dispone, ipotizzando così un obbligo a trattare.
In goni caso, con la nuova formulazione dell’art. 31, comma 2 la problematica sembra essere superata giacché è la norma a fissare un tetto “di riserva”. Nel caso in cui, infatti, il datore di lavoro assuma solo lavoratori in somministrazione a termine, non può superare il limite del 30% giacché l’art. 31, comma 2 fa salvo il limite posto dall’art. 23 e riserva il limite del 30% in due ipotesi: la prima, nel caso in cui nell’azienda ci siano sia lavoratori a termine che in somministrazione a termine; nel secondo caso, ove nell’azienda siano presenti solo lavoratori in somministrazione a termine.
Tuttavia, sulla nuova formulazione dell’art. 31, comma 2 è stata avanzata un’altra lettura interpretativa, secondo cui il legislatore, con la disposizione in esame, avrebbe riferito il limite del 30% non alla somministrazione tout court bensì al cumulo tra le due forme contrattuali della somministrazione a tempo determinato e del contratto a termine. In altre parole, qualora l’azienda ricorra ad entrambe le forme di flessibilità in entrata, ricadrebbe nell’ambito di applicazione del limite del 30% (la norma infatti prevede che in tali casi il numero degli assunti “non può eccedere complessivamente il 30 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza presso l’utilizzatore”); se viceversa utilizza solo lavoro in somministrazione, tale regime vincolistico non opererebbe, e la somministrazione a termine sarebbe di fatto svincolata dal limite legale di contingentamento.
La circolare conclude l’analisi di alcune delle disposizioni della riforma precisando che quelle fornite sono mere interpretazioni volte a fornire un primo “appoggio” pratico alle problematiche che i Consulenti si troveranno ad affrontare nei prossimi mesi, in attesa di un confronto aperto con tutti gli attori del mercato del lavoro e di qualche caso giudiziario che possa chiarire i diversi dubbi sorti sulla normativa.
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([1]) L’art. 19 prevede al comma 1 che “Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.
([2]) A. Paone, Scelta del contratto da applicare al rapporto di lavoro: criticità, in DPL, 2017, n. 44, p. 2678.
([3]) Cfr. Cass. 8 febbraio 2016, n. 2024.