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Bollettino ADAPT 13 gennaio 2020, n. 2
Negli ultimi mesi gli occupati in Italia con un contratto a tempo determinato ha raggiunto il numero più alto da quanto esistono le serie storiche Istat. Un dato passato inosservato ma confermato dai dati diffusi ieri relativi a novembre, quando i lavoratori a termine erano 3,1 milioni. Una crescita che, dopo lo stop generato dagli effetti temporanei del Decreto Dignità è ripartita ormai dal febbraio dello scorso anno. Spesso si tende a dipingere, sbagliando, l’Italia come un Paese nel quale l’occupazione a tempo dilaga e nel quale il lavoro stabile non esiste più. Ma questa visione semplicistica, oltre a discostarsi dalla realtà, rischia di non far cogliere sia i problemi che le opportunità di una struttura del mercato del lavoro che sta indubbiamente cambiando e che vede crescere sia il lavoro a tempo determinato che quello a tempo indeterminato, cresciuto di oltre 200mila unità nel 2019.
In soccorso arrivano i recenti dati Eurostat che fotografano il quadro del lavoro temporaneo in Europa e che mostrano come l’Italia, pur essendo sopra la media UE, non detiene certo un record. A fronte di una media del 13,6% l’Italia ha una quota di lavoratori a termine del 17,1% posizionandosi alle spalle, nell’ordine, di Spagna, Polonia, Portogallo, Olanda, Croazia e appena sopra Francia e Finlandia. Il problema si pone invece scomponendo il dato per fasce d’età e scoprendo che l’incidenza del lavoro temporaneo per il lavoro dei giovani è notevolmente più elevata della media europea. Se infatti questa è del 42,8% nella UE a 28 paesi, in Italia sale al 63,2% seconda solo al 68% della Spagna. E il dato è maggiore di quasi venti punti percentuali rispetto a quello del 2008, dove gli occupati temporanei tra i giovani si fermavano al 44%. Nello stesso periodo storico in Europa la quota è cresciuta solamente di due punti percentuali.
Cosa ci dicono questi dati? Innanzitutto che la struttura dell’occupazione giovanile in Italia è mutata profondamente. È bene diffidare, nel contesto economico e produttivo contemporaneo, da chi identifica un contratto a termine come in sé negativo e un lavoro a tempo indeterminato come automaticamente positivo. Questo ancor di più in un paese dove spopolano i tirocini con bassissime indennità e il lavoro nero cresce invece che diminuire. Ma è evidente che all’interno di una quota così ampia di giovani occupati con contratti a tempo rientrano importanti fette di lavoro poco qualificato, con poche ore e con salari che non consentono una autonomia economica. E la forte crescita che si è concentrata in questa specifica fascia evidenzia come uno dei principali punti critici, sia oggi che in prospettiva futura, del mercato del lavoro italiano sia proprio l’occupazione giovanile. Ma di fronte a questi dati scatta spesso l’impulso normativo che immagina di mutare un fenomeno attraverso l’introduzione di una legge che limiti l’utilizzo di determinati strumenti contrattuali. Si tratta di una soluzione che può avere un forte impatto mediatico e comunicativo ma che poco può fare per cambiare veramente le cose. Lo stesso Decreto dignità in dodici mesi ha ridotto la quota di lavoro temporaneo giovanile dello 0,2% e quella complessiva dello 0,1%, in pratica nulla. Un tentativo potrebbe essere, invece che ritornare sull’eterno dibattito in merito all’articolo 18, quello di cambiare completamente l’approccio prendendo consapevolezza che la struttura dei mercati del lavoro è oggi profondamente diversa da quella statica e lineare tipica del Novecento industriale, almeno per una importante fetta di lavoratori. La transizione tra lavori, formazione, tipologie contrattuali diverse è sempre più una normalità e le nuove generazioni lo sanno bene. Purtroppo tutto questo spesso diventa una condanna quando non accompagnato da un sistema di politiche del lavoro adeguato e che non guardi al passato. Siamo ancora ancorati a una visione che vede la transizione come un dramma da evitare e non come una possibile opportunità di crescita professionale se adeguatamente accompagnata da formazione e valorizzazione delle competenze. Per tutto questo mancano sia gli strumenti sia la consapevolezza di molti degli attori che dovrebbero essere coinvolti: scuola, università, parti sociali, servizi per il lavoro ecc. Allo stesso tempo non deve mancare la tutela delle professionalità più deboli e che hanno potere contrattuale minore sul mercato, ovviamente. E forse è proprio questo il nodo, smettere di trattare il lavoro e i lavoratori come un grande insieme monolitico e iniziare a cogliere la complessità di casi, esperienze, esigenze e competenze diverse. Perché la più grande ingiustizia è proprio trattare il diverso come uguale.
Presidente Fondazione ADAPT
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 2020