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Bollettino ADAPT 20 luglio 2020, n. 29
Mai come negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare di lavoro agile, e i prossimi, con un probabile rinnovo della disciplina straordinaria in materia, non saranno diversi. L’occasione è di quelle che nessuno vorrebbe attendere, ma è un dato di fatto che per affrontare in modo massiccio un tema strategico per il futuro (e il presente) del lavoro è dovuta arrivare la pandemia. Si stimano infatti 8 milioni di lavoratori in Italia che in questo momento lavorano da remoto, e aziende che non avevano mai sperimentato questa formula l’hanno fatto per quasi la totalità del loro personale in pochi giorni. Recentemente Eurostat ha diffuso i dati relativi al 2019 dai quali emerge che su 100 lavoratori in Italia solo 3,6 hanno lavorato solitamente da casa, contro una media europea di 5,3 e con picchi di 14 in Finlandia e Olanda. Non vogliamo qui dilungarci nei numerosi aspetti sia tecnici che definitori (in particolare sulla distinzione, tutt’altro che formale tra lavoro agile e telelavoro) sui quali molta confusione si è fatta nei giorni dell’emergenza. Quello che è utile affrontare, anche in vista di un auspicato ritorno alla normalità, è la natura stessa di questo strumento, le sue potenzialità e i suoi limiti. Infatti serpeggia la convinzione deterministica che la crisi in corso per forza di cose cambierà, e in meglio, l’organizzazione del lavoro. Si tratta di un pensiero ingannevole e che scarica le responsabilità dell’oggi, in primis quella di pensare a nuovi paradigmi approfittando di ciò che sta accadendo, su una mano invisibile che si rivela sempre una grande illusione.
In queste settimane è emerso chiaramente come la quota di lavori che possono essere svolti al di fuori dal luogo di lavoro sia ampia in virtù della disponibilità di tecnologie che lo consentono e in virtù della natura intellettuale di buona parte dei lavori di oggi. Ma, appunto, non basta la possibilità tecnica di poterlo fare affinché questo diventi una scelta organizzativa efficace e matura. Molto lo capiremo al termine della situazione attuale, quando si vedrà come e in che misura le numerose imprese che hanno introdotto l’utilizzo di questo strumento lo confermeranno. Perché è chiaro che l’emergenza impone scelte emergenziali e con essa impone di accettare i rischi che questi comportano. Ma con il ritorno alla normalità la scelta diventa di natura puramente economica e organizzativa. E qui potrebbero giungere al pettine una serie di nodi chiave che il legislatore italiano non ha mai voluto accettare in termini di indirizzi di politica del lavoro. Il principale riguarda la contraddizione di fondo di una legge, quella sul lavoro agile, che si rivolge al lavoro subordinato e, allo stesso tempo, definisce lo smart working come il lavoro che si svolge con una “organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”. Chiunque legga queste caratteristiche sarebbe portato immediatamente a pensare ad una forma di lavoro autonomo e non dipendente. E in questa contraddizione ritroviamo la profonda crisi di una normativa sul lavoro che si trova a fare i conti con un sistema produttivo e organizzativo, e anche con una volontà da parte dei lavoratori, che non riesce più ad essere pienamente regolata. Il lavoro dipendente infatti, come sta emergendo chiaramente in questi giorni, non è più vincolato in molti casi ad un luogo fisico nel quale sono collocati i mezzi di produzione. E questo spesso va di pari passo alla non necessità di un orario specifico in cui eseguire una prestazione, orario che è normalmente connesso proprio alla presenza di determinati macchinari in funzione in un arco di tempo stabilito. Questo non significa che l’economia della conoscenza, e tutto quello che vi ruota intorno, non abbia più tempi e luoghi ma che, come dice la norma, non vi siano “vincoli precisi”. Il tempo è spesso un tempo massimo, un obiettivo temporale, il luogo è un luogo dal quale poter accedere ad informazioni, strumenti e relazioni. In questo quadro, in cui facilmente molti lavoratori oggi possono riconoscersi, le disposizioni della legge in merito ad orari e esercizio del potere direttivo del datore di lavoro sembrano quantomeno anacronistici.
È comprensibile che ci possa essere il timore di un abuso dello strumento del lavoro agile che finirebbe per accrescere i tempi effettivi di lavoro e anche la pervasività dei controlli attuati grazie alla tecnologia, ma questo timore è tale se inserito in una logica organizzativa gerarchica che proprio il moderno lavoro agile dovrebbe superare. Ed è proprio a questo livello che si gioca una delle partite centrali del lavoro post-emergenza: se sia ancora necessaria, sia per i lavoratori che per le imprese, l’adozione di modelli organizzativi novecenteschi o se invece occorra ripensare i vincoli fiduciari tra persone e quindi gli strumenti che li regolavano. Questo implica tempo e sperimentazione e la certezza che a cambiare debba essere la prospettiva di entrambe le parti in gioco. Si potrà scoprire così, ci auguriamo senza scandalo, che molti lavoratori, così come molti responsabili, non sono pronti ad adottare questi modelli e che occorra avviare processi e non solo calare dall’alto strumenti, perché non c’è nulla di più inutile di piantare un seme in un terreno arido.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
*pubblicato anche su ll Sole 24 Ore, 14 luglio 2020