Lavoro agile: di che si parla? Di negare l’elemento tempo o di nuovi sinallagmi contrattuali?

“Lavoro agile” è una formula retorica ammantata di leggerezza e presunta modernità, che dà l’idea di contrapporsi ad un lavoro, invece, “pesante”, lento e impacciato, dunque costoso e inefficiente.

Ma, esattamente, cosa di deve intendere per “lavoro agile” e per il superamento dell’orario di lavoro, considerato dal Ministro Poletti un attrezzo vecchio?

 

Appare appena il caso di sottolineare che la questione posta, relativa al modo con cui remunerare il lavoro subordinato, pur ammantata di modernità, sia, al contrario un tema vecchio, vecchissimo, appartenente in pieno non solo alle logiche del vituperato ‘900, ma addirittura dell’800 e dell’alba dell’industrializzazione.

 

La determinazione della remunerazione del lavoro è, da sempre, il tema dei temi, poiché è il metodo per comporre il conflitto di interessi (inutile negarne l’esistenza) tra datore di lavoro e lavoratore. Il datore ha l’interesse ad avvalersi della prestazione lavorativa più efficace possibile al minor costo possibile, per ottenere legittimamente incrementi ai margini del profitto.

Il lavoratore ha l’interesse a svolgere la propria prestazione nel modo più efficiente possibile, così da mantenere in piedi il rapporto contrattuale e contribuire al mantenimento dell’azienda, ed alla retribuzione più elevata possibile. Esiste un interesse comune: il mantenimento dell’operatività dell’azienda e, anzi, la sua crescita. Per il datore, questo interesse comune si traduce in una maggiore durata nel tempo del ritorno dal proprio investimento. Per il lavoratore nella maggiore stabilità possibile della propria fonte di sostentamento.

 

La retribuzione è lo strumento contrattuale che unisce, dunque, datore e lavoratore, facendo sì che i loro interessi divergenti confluiscano verso la direzione comune che entrambi hanno vantaggio a percorrere. Ed allora, si pone il problema: come commisurarla? Facendo riferimento all’orario? Oppure, ri-spolverando il “risultato”?

La risposta dovrebbe reperirsi non in astratto, ma in concreto. È evidente che il miglior sistema di commisurazione della retribuzione è quello che meglio si adatta alla sua funzione, cioè il componimento contrattuale degli interessi contrapposti visti prima.

 

Allora, è chiaro che sia il datore di lavoro, sia il lavoratore hanno un interesse comune al “risultato” dell’azienda: infatti, con prodotti o servizi che occupino il mercato e soddisfino la clientela si ottiene la salute e la durata dell’azienda e, dunque, delle fonti di reddito.

Tuttavia, il lavoratore non può che guardare ad un risultato molto frazionato, quello connesso alla propria specifica attività lavorativa, funzionale al risultato più ampio dell’intera azienda.

Il datore di lavoro ha una più consapevole e chiara visione del risultato, che non è quello di un singolo lavoratore o di un reparto o di un prodotto, ma dell’intera azienda, perché è la capacità complessiva di stare nel mercato e mantenere ed espandere la clientela che costituiscono la base per il profitto. Infatti, è proprio nel risultato dell’organizzazione dei mezzi di produzione che l’imprenditore ricava la principale componente del proprio guadagno.

 

Il datore, quindi, misura necessariamente il proprio interesse soprattutto se non esclusivamente in termini di risultato: più prodotti vende, più servizi rende, più vede crescere il profitto (ovviamente, se i costi vengono mantenuti sotto controllo).

Per il lavoratore è molto più sfumata e indiretta la relazione tra crescita complessiva dei risultati dell’azienda e crescita della propria retribuzione, che resta tendenzialmente fissa e la sua dinamica è comunque legata alla contrattazione. Il vero beneficio diretto per il lavoratore dovuto ai risultati complessivi dell’azienda consiste nella conservazione del rapporto di lavoro.

 

Quelle che precedono potrebbero essere osservazioni scontate e figlie dell’impostazione del ‘900, ma queste sono le regole generali che governano l’organizzazione del lavoro.

 

Prendendo atto che al livello macro le cose stanno ancora così, risulta forzato ragionare del rapporto di lavoro partendo dal presupposto che l’orario sia un attrezzo vecchio e che la remunerazione vada, pertanto, parametrata non ad un elemento fisso, come l’orario, bensì in modo esclusivo o comunque prevalente al “risultato”.

 

La ragione di tale inadeguatezza è estremamente semplice: la retribuzione “a risultato” misura solo gli effetti dell’attività lavorativa, ma non considera l’attività svolta. È il meccanismo, infatti, del contratto d’opera. Ma, persino per il contratto d’opera l’articolo 2225 del codice civile ha previsto dei correttivi: «Il corrispettivo, se non è convenuto dalle parti e non può essere determinato secondo le tariffe professionali o gli usi, è stabilito dal giudice in relazione al risultato ottenuto e al lavoro normalmente necessario per ottenerlo».

 

L’opera realizzata a regola d’arte è la condizione del pagamento; ma esso viene comunque commisurato ad un elemento precostituito (tariffe professionali o usi, se esistenti) e, in ogni caso, tiene conto del lavoro normalmente necessario. Nei contratti d’opera degli artigiani, le ore di lavoro impiegate per realizzare il manufatto contano e non poco per determinare il corrispettivo.

 

Non si capisce, allora, la pulsione irresistibile a trasferire ad una tipologia contrattuale completamente diversa, quella del contratto di lavoro subordinato, un meccanismo retributivo “a risultato” tipico del lavoro autonomo e, per altro, in questo ambito, relativizzato da strumenti di riconoscimento del tempo di lavoro impiegato.

D’altra parte, per quanto possano essere sviluppate tecniche di misurazione delle “metriche” del lavoro, vi sono casi nei quali risulta evidente come sia nella sostanza il tempo l’elemento essenziale del contratto di lavoro subordinato.

 

Un primo esempio: il lavoro di un controllore di un treno. Quale potrebbe essere la metrica utile per determinare il pagamento della retribuzione “a risultato”? Il numero dei biglietti punzonati? Ma, questo numero è un fattore che non rientra nella disponibilità né dell’azienda, né del controllore, perché può cambiare fortemente a seconda dell’orario quotidiano, del giorno lavorativo o festivo e della tratta. Allora, un parametro di “risultato” potrebbe essere la puntualità del treno? Ma questo è un risultato “aziendale” che dipende dall’organizzazione del gestore della rete di viaggio; come tale, sfugge completamente alla sfera del controllore. Un terzo parametro potrebbe essere la “cortesia”? E come la si misura? Raccogliendo ed elaborando migliaia di schede di gradimento?

Un secondo esempio: il lavoro di un muratore in un cantiere. Il risultato qual è: l’innalzamento di un muro? Sicché tutta l’attività lavorativa, fisicamente molto impegnativa, prestata nelle varie giornate dedicate al compimento dell’opera non viene valutata?

 

Quando si affronta il tema delicatissimo della determinazione della retribuzione, non si deve dimenticare che il lavoratore, oltre ad obbligarsi a rendere una prestazione efficace ed adeguata alle competenze richieste per il ruolo ricoperto, mette a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative, accettando per altro di costituire col datore un vincolo gerarchico vincolandosi ad adempiere alle direttive imperative di queste.

Il tempo di lavoro, dunque, non appartiene più al lavoratore, ma è da questo messo a disposizione del datore, che proprio per questo ne “dispone” e lo organizza. Stabilendo che in quel tempo il lavoratore debba compiere certe attività e non altre ed in un certo modo, e non in un altro, in quanto rispettando tali direttive l’apporto lavorativo consente di far funzionare l’organizzazione ed ottenere il risultato complessivo, mira dell’imprenditore.

 

Nel tempo di lavoro, il lavoratore non può attendere alla cura di propri interessi personali o della famiglia, perché è al servizio del datore. Non è un caso che il “tempo di lavoro” sia contrapposto al “tempo libero”. Tale contrapposizione esiste, proprio perché il tempo di lavoro non è libero, ma vincolato. Dunque, il lavoratore nei fatti “vende” il proprio tempo al datore, obbligandosi in quel tempo a fare o non fare determinate azioni: come stare sul treno a controllare i biglietti, o in cantiere a costruire il muro.Poiché il lavoratore “vende” il proprio tempo, appare del tutto normale, chiaro ed evidente che la retribuzione sia commisurata all’orario. Spetta a chi organizza i fattori produttivi indicare le mansioni ed attività che in quell’orario consentano di contribuire ai risultati aziendali. Altrettanto normale è che l’orario abbia durate e valori diversi, a seconda delle abilità competenze e difficoltà richieste per svolgere la prestazione.

 

Pertanto, pensare di legare il compenso al solo risultato tradisce il rischio di tornare ben più indietro del ‘900, al vero e proprio cottimo, proporzionato alla quantità del prodotto e indifferente alle energie profuse. Puntare drasticamente al risultato, abbandonando la messa a disposizione delle energie lavorative per un certo tempo, implica il rischio di passare dal “ti pago per” al “ti pago se”.

 

Tornando, allora, agli esempi di prima, il controllore verrebbe pagato non per essere stato ore ed ore sul treno, ma solo se abbia punzonato i biglietti, caricandosi il rischio di un viaggio senza passeggeri; il muratore verrebbe pagato solo se il muro è costruito a regola d’arte e non per le attività lavorative espletate. Insomma, il tempo messo a disposizione da entrambi, controllore e muratore, non avrebbe valore, ma conterebbe solo l’opera realizzata.

 

Tuttavia, il risultato vero e proprio dell’attività dell’azienda di trasporto consiste nel condurre a destinazione i passeggeri, oppure nel realizzare il muro in modo che tenga e rispetti il progetto. Questi risultati sono la condizione del profitto dell’azienda di trasporto e dell’impresa appaltatrice, le quali dalla somma dei biglietti venduti e dalla remunerazione scontata nel contratto di appalto ricavano il proprio profitto, come tale comprendente anche la copertura del costo del lavoro.

 

Se si passa al “ti pago se”, la mossa appare evidentemente finalizzata a due risultati. Il primo è l’indebolimento del contratto di lavoro, sia collettivo, sia aziendale, sia individuale.

 

Il secondo, è agire per la svalutazione del fattore lavoro. Infatti, il costo del lavoro non sarebbe più così fisso e costante, ma sarebbe condizionato solo al risultato e potrebbe determinarsi l’effetto di una crescita abnorme del tempo di lavoro alla quale la retribuzione resterebbe indifferente. Un modo, quindi, forzato ed artefatto per aumentare la produttività: misurarla non considerando più il fattore tempo, ma solo guardando all’output, restando onere esclusivo del lavoratore organizzarsi il tempo per garantire il risultato.

 

Non è chi non veda che spingere all’estremo il “lavoro agile” così inteso altro non sia se non il modo di ottenere un incremento della produttività forzato e drogato, riducendo il costo del fattore lavoro, in una fase economica recessiva nella quale non si riesce a ridurre gli altri costi dei fattori di produzione, né ottenere una significativa diminuzione della pressione fiscale.

 

Il “lavoro agile” appare molto una scorciatoia per ottenere un sensibile ribassamento del costo del lavoro proprio su base oraria.

 

Di “nuovo” il tema proposto dal Ministro Poletti pare avere ben poco e, al contrario, sembra un tema in accezione del tutto “passatista”.

 

A meno che il tema di cui trattare non sia totalmente un altro. Sui quotidiani del 29 novembre alcuni esperti hanno, in effetti, tentato in qualche modo di uscire dal vespaio di polemiche innescato dalla crudezza dei ragionamenti esposti dal Ministro, soffermandosi sulla necessità di intendere in modo diverso le relazioni industriali.

Sul Corriere della Sera, Dario Di Vico nell’articolo I lavori senza tempo ha inteso il messaggio del titolare del dicastero di via Veneto come se si trattasse di un invito a modificare l’organizzazione oraria. Infatti, cita l’accordo della Ducati, che consente agli operai di lavorare in spazi e tempi non dettati dai ritmi fissati da una macchina. L’articolo cita anche le esperienze dei team informali, nei quali è il team stesso ad autogestire i turni ed i ritmi di lavoro.

 

Non molto diverso è l’approccio di Oscar Giannino nell’articolo de Il Messaggero Sull’orario di lavoro adesso servono i fatti. Il Giannino afferma una cosa assolutamente condivisibile: «Nella realtà dei fatti, per la stragrande maggioranza dei 15 milioni di lavoratori dipendenti tra pubblici e privati, a cominciare da un’elevatissima percentuale di chi è occupato nell’offerta di servizi pubblici e privati, è un dato di fatto che la vecchia presenza continuativa al lavoro è del tutto o in larga parte superabile. Mentre è un problema serissimo la conciliabilità tra lavoro e carichi familiari e cura parentale». E anche Giannino cita l’esempio della Ducati ed altre imprese come la Luxottica dove «la flessibilità oraria rispetto al contratto nazionale è al centro di una scommessa complessiva tra azienda e sindacato: turno e orari fanno parte di un piano diverso reparto per reparto e rivisto e ritarato mensilmente, con scostamenti tra il 25% e il 37% in meno e in più rispetto al contratto nazionale, totale riconoscimento delle ore impiegate dai lavoratori per raggiungere il posto di lavoro, monte ore etico per devolvere a chi ha difficoltà ore accantonate a favore di altri colleghi, commisurazione dei regimi orari dei reparti in linea con quello del reparto che riceve le lavorazioni e viceversa».

 

Tutto giusto, tutto ineccepibile. Ma, la flessibilità oraria, così come il premio per i risultati ed il salario di produttività costituiscono un tema completamente altro e diverso dal considerare l’orario un “attrezzo vecchio”.

 

È assolutamente centrato porsi il problema dell’innovazione fortissima delle dinamiche produttive nelle imprese, prendendo atto che il lavoro non si svolge più necessariamente entro luoghi e tempi rigidamente definiti. Se per “lavoro agile” si intende una diversa impostazione del rapporto contrattuale, che influisca su tempi e modi di resa dell’attività, in modo anche da modificare gli assetti di interesse delle controparti, allora la questione si pone nei giusti canali. Il fattore tempo, sulla base di questa visione, non viene negato, ma rivisto come elemento appunto flessibile e non fisso.

Se il focus del problema è “come” espletare le attività lavorative, allora strumenti di “decentramento” del lavoro e di flessibilizzazione del tempo sono utilissimi per ridefinire il sinallagma nel suo complesso. Si pensi alle potenzialità sin qui troppo poco esplorate del telelavoro. È una formula che può consentire di valutare in modo profondamente diverso il tempo che il lavoratore mette a disposizione del datore, perché quel tempo può essere dedicato con minore sacrificio della propria sfera personale: non nei campi o in fabbrica o su mezzi di trasporto o in ufficio, ma a casa. Con una maggiore conciliabilità tra lavoro cura delle proprie esigenze e minori oneri e vincoli legati al rapporto obbligatorio: basti pensare alla possibilità, per il lavoratore, di organizzare il proprio tempo, di fruire di minori costi per recarsi verso il luogo di lavoro, la possibilità di attendere direttamente alla cura di figlio o genitori anziani.

 

Una riorganizzazione del tempo di lavoro tale da rendere la prestazione a misura delle disponibilità del lavoratore, può certamente essere oggetto di una rinegoziazione della remunerazione, tale per cui non necessariamente sia l’incremento orario della retribuzione la mira, bensì la creazione di sistemi di organizzazione che lascino margini di autorganizzazione. Ad un lavoratore può interessare maggiormente evitare costi e tempi di viaggio per recarsi nel luogo di lavoro, che ottenere un incremento secco del compenso.

 

Ovviamente, non tutte le attività lavorative si prestano a misure organizzative di questo genere: da qui il problema del ruolo dei livelli di contrattazione. È chiaro che solo una contrattazione aziendale ed individuale è capace di modificare il sinallagma tra le parti in modo da contemperare in modo meno schematico e precostituito gli interessi delle parti.

 

In quanto al risultato, ogni misurazione della metrica del lavoro capace di definire gli standard della prestazione individuale e di gruppo, nel contempo in grado anche di misurare i risultati obbligatori remunerati con la retribuzione oraria, distinguendola da risultati ulteriori di crescita della produttività, retribuiti con premi ed incentivi, va benissimo. L’importante è non perdere di vista la circostanza che il lavoratore subordinato comunque è sulle energie lavorative messe a disposizione del datore che fonda la propria “autorganizzazione” il suo specifico “fattore di produzione”, che non può non essere remunerato.

 

 

Luigi Oliveri

Dirigente Coordinatore Area Servizi alla Persona e alla Comunità

Provincia di Verona

 

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