ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro
Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui
Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it
Bollettino ADAPT 26 aprile 2022, n. 16
Dopo due anni di sperimentazione forzata, che poco ha avuto a che fare con lo spirito della legge n. 81/2017 e con le principali best practices, si è riacceso il dibattito parlamentare circa la necessità di una più o meno ampia riforma proprio della legge del 2017. È così che della decina di disegni di legge depositati alla Camera dei Deputati, lo scorso 16 marzo la Commissione Lavoro pubblico e privato ha votato un “testo unificato adottato come testo base” (Allegato 8).
Non è questa la sede per una puntuale disamina dell’articolato e neppure per impegnative valutazioni di politica del diritto e implicazioni sui sistemi di contrattazione collettiva. Mi limiterò invece a segnalare i principali elementi di “rottura” con il quadro normativo oggi in vigore, con relativi rischi di disorientamento di operatori e parti sociali.
Il DDL si apre con una riformulazione della nozione contenuta all’art. 18 co. 1 legge n. 81/2017, con l’eliminazione dell’orientamento finalistico (competitività e conciliazione) proprio della disciplina originaria (norma incentivo), facendo venir meno l’orientamento agli obiettivi (nel testo viene espunto il vocabolo “obiettivi”, rimanendo solamente la locuzione “con forme di organizzazione per fasi e cicli”), ma anche il principio dell’alternanza e del rispetto dell’orario massimo giornaliero e settimanale. Ma il vero contenuto riformatore sarebbe riportato al nuovo secondo comma, operante un rinvio alla contrattazione collettiva (ex art. 51 d. lgs. n. 81/2015), per la definizione di determinati istituti di tutela. Un’inversione a U rispetto all’impianto originario della legge del 2017, peraltro accompagnata da precisi richiami contenutistici che vincolano l’intervento della contrattazione.
Tra gli elementi che sarebbero invece da normare per il tramite dell’accordo individuale in base al novellato art. 19 vi sarebbe una previsione malamente collocata dal punto di vista sistematico che attiene alla nozione stessa di “lavoro agile” utile all’ambito di applicazione della stessa legge. Si richiede infatti che sia previsto un «monte ore di almeno il 30 per cento da dedicare a ciascuna attività in modalità agile, in quanto compatibile». La formulazione sembra voler richiamare tentativi definitori già sperimentati con i primissimi disegni di legge (il riferimento è al DDL Mosca del 2014, su cui v. Aa. Vv., Guida pratica al lavoro agile dopo la legge n. 81/2017, ADAPT University Press, 2017, 8-13) che invero fissavano percentuali massime, nell’intento di recuperare una distinzione non solo nominalistica con la fattispecie del telelavoro. Non viene peraltro chiarito quale sia il parametro su cui calcolare detta percentuale (orario settimanale, mensile, archi temporali) e neppure dove si collocherebbero, dal punto di vista delle tutele e delle regole d’ingaggio, forme di lavoro da remoto che si attestassero su percentuali inferiori. Si pensi alla prassi mediamente diffusa che si concretizza in un solo giorno a settimana (8 h, ove il 30% di 40 h settimanali prevederebbe almeno 12 ore).
Quanto all’orario di lavoro, due sono le principali misure d’interesse. Da un lato viene opportunamente chiarito che, al pari del telelavoro e di altre forme di lavoro (direttivi, quadri, dirigenti), anche al lavoro agile si applicherebbero le deroghe di cui all’art. 17 co. 5 decreto legislativo n. 66/2003 (orario normale di lavoro, durata massima settimanale dell’orario di lavoro, lavoro straordinario, riposo giornaliero, lavoro notturno).
Dall’altra viene introdotta per la prima volta nell’ordinamento una definizione in senso positivo (quindi non solo il precetto, previsto sin dal 2017) di diritto alla disconnessione che tra l’altro dovrebbe almeno coincidere con il «periodo di riposo» (art. 1 d. lgs. n. 66/2003), salvo poi prevedere la deroga di cui all’art. 17 co. 5 sopra richiamato, generando così profili di incertezza. Recuperando una proposta di legge depositata al Senato, su cui già abbiamo scritto, in caso di approvazione della riforma in commento, la violazione del diritto alla disconnessione configurerebbe anche il reato di «interferenze illecite nella vita privata» (art. 615-bis c.p.).
Altri sono poi gli ambiti dell’intervento riformatore, tra cui: formazione digitale, credito d’imposta ed incentivi per i datori di lavoro che promuovono la diffusione della modalità di lavoro agile, previsione di un monitoraggio delle buone prassi.
Vi sarà tempo e modo di analizzare più nel dettaglio la possibile portata di un simile intervento, sul quale non è possibile prevedere tempi e modalità dell’iter parlamentare. Allo stato può intanto venire alla mente una qualche riflessione.
Se il presupposto è la spinta correttiva di possibili storture emerse proprio in fase pandemica, dove la costrizione domiciliare sarebbe stata più onestamente da ricondurre a forme di telelavoro, il rischio -elevato- è di prendere abbagli. Intervenire cioè in maniera strutturale, e non chirurgica (cioè per correggere e/o chiarire singoli aspetti, come nel caso dell’orario di lavoro), su un impianto ormai assimilato, minando quella chiarezza di regole e certezza del diritto sempre invocata da ogni parte, sulla base di un’esperienza che poco o nulla aveva a che vedere con forme evolute di lavoro agile in senso proprio.
Marco Menegotto
ADAPT Professional Fellow