Dopo alcuni giorni dal referendum che ha portato alle dimissioni del governo Renzi e all’apertura di una crisi ancora poco decifrabile iniziano ad essere disponibili elementi che consentono di analizzare in modo più approfondito il voto di domenica. Che la consultazione non fosse totalmente incentrata sui contenuti della riforma della Costituzione è chiaro. Così come è chiaro che qualsiasi referendum non può essere letto al di fuori del contesto storico e socio-economico nel quale si colloca. E su questo fronte le dinamiche più interessanti da prendere in considerazione sono quelle legate al mercato del lavoro. L’analisi dei flussi elettorali ci mostra chiaramente come vi sia una correlazione tra i tassi di disoccupazione e inattività, soprattutto giovanile, e il rifiuto del progetto riformatore avanzato da Matteo Renzi proprio in nome degli esclusi e dei più deboli.
Se si analizzano i risultati su base provinciale sono solo 13 le province in cui il “Sì” è prevalso e si tratta proprio di quelle in cui i tassi di disoccupazione giovanile sono sotto il 30%. Tasso comunque elevatissimo e che spiega il fatto come anche nelle province in cui esso si trova tra il 15 e il 30% il No ha prevalso ampiamente. È bene ricordare i numeri: in Italia oggi il 36% delle forze lavoro giovanili è disoccupato e oltre 2 milioni di under 29 rientrano nella categoria dei NEET. Un esercito, si direbbe. E proprio come un esercito sembra essersi mosso in modo compatto, senza alcuna differenza geografica, in una “spedizione punitiva” verso quello che ha identificato come un governo delle promesse non mantenute. Un Governo che, nonostante la tardiva promessa di una decontribuzione totale per le assunzioni di giovani del Mezzogiorno, evidentemente viene percepito come distratto rispetto ai bisogni del Paese. In particolare sul tema del lavoro: l’Italia mostra ancora oggi infatti i segni di una profonda lacerazione, un quadro molto diverso rispetto alla comunicazione di superficie incentrata sullo slogan ossessivo della “svolta buona” che, nonostante la parziale crescita degli occupati, troppi non hanno visto. A partire proprio dai tanti ragazzi che si sono iscritti al programma “Garanzia Giovani” per poi neppure essere chiamati per un colloquio preliminare. La stessa dinamica si può riscontrare sia per quanto riguarda i disoccupati senza distinzioni di fasce d’età, che in Italia ammontano a quasi 3 milioni e gli inattivi, pari a 13,6 milioni. Sembra invece che i recenti interventi in materia pensionistica, contenuti nella legge di bilancio in discussione, abbiamo portato i risultati (forse) sperati se è vero che i voti per il Sì si concentrano nella fascia degli over 60.
Oltre a queste correlazioni, è interessante notare la differenza tra i risultati delle città e quelli delle province, come già e in modo più acuto si è riscontrato nei recenti casi del referendum sulla Brexit e delle presidenziali Usa. In diverse città del nord Italia, ad esempio, il Sì ha guadagnato più consensi rispetto a quanto abbia fatto nella provincia immediatamente limitrofa ai confini urbani. Una dimostrazione come anche il nostro Paese non sia esente da quella evoluzione della geografia del lavoro che rischia di polarizzare sempre più la popolazione tra centro e periferia, complice la crescita della concentrazione di ricchezza, oggi veicolata dall’innovazione e dal capitale immateriale, in particolare nei conglomerati urbani.
Se il capitale del futuro è il capitale umano, solo laddove esso è valorizzato, formato, riqualificato è possibile una evoluzione moderna dei mercati del lavoro, e per far questo è necessaria una rete di attori che concorrono alla creazione del valore, oggi concentrati nelle città. Alla luce di ciò emerge oggi una urgenza, per qualunque governo sostituirà quello dimissionario: il potenziamento e l’attivazione delle politiche del lavoro. Il capitolo sulle politiche attive del Jobs Act, il grande assente fino ad oggi, rischia infatti di essere vanificato sul nascere dal risultato della consultazione referendaria, perché costruito sulla base di una centralizzazione delle competenze in materia di lavoro, come se la Costituzione fosse stata già cambiata. Ma così ora non è. Senza un intervento netto, e il più possibile condiviso dalle forze politiche, per risolvere questa contraddizione, si finirebbe per non incidere sulla situazione socio-economica che ha guidato la scelta degli elettori al referendum. Rischiamo di trovarci così ancora nel pantano di un mercato del lavoro in cui sono state superate, anche giustamente, alcune rigidità storiche, senza però venire sostituite da nuove risposte alle esigenze di chi resta senza lavoro. Il rischio è che il prossimo appuntamento referendario, con a tema la reintroduzione proprio di queste tutele come l’originaria formulazione dell’articolo 18, ci possa riportare indietro di vent’anni.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt
Direttore ADAPT University Press
Coordinatore scientifico ADAPT
Pubblicato anche su Avvenire, 7 dicembre 2016