I giovani italiani sono spesso al centro del dibattito pubblico, specialmente dall’inizio della crisi economica.
Leggendo l’ultimo rapporto Istat sulla situazione del Paese emerge però che tale centralità fatica a sfondare il muro dei salotti televisivi o le pagine dei giornali.
Il quadro dipinto dai numeri impietosi della statistica ufficiale delinea infatti un cupo scenario, che induce a temere di aver già perso la sfida del futuro dell’Italia, o quanto meno di un tenace impegno per ipotecarsi la sconfitta.
I temi in analisi sarebbero tanti ma basta concentrarsi sul mercato del lavoro per cogliere la dimensione del problema.
Chi non lavora: vorrei ma non posso
Partiamo dalla spesso citata categoria dei NEET, ossia i giovani tra i 15 e i 29 che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in percorsi di formazione. Nel 2015 in Italia erano 2 milioni e 349 mila, appena 64 mila in meno del 2014 e, soprattutto, 530 mila in più rispetto al 2008.
Un aumento considerevole in soli 7 anni, ancora più elevato se si tiene conto che i trend demografici in Italia stanno andando nella direzione di una diminuzione di questa fascia d’età.
Quello che colpisce di più è che nella triplice suddivisione tra disoccupati, forze lavoro potenziali e coloro che non cercano e non sono disponibili le ultime due sono rimaste più o meno invariate (seppur con un aumento di 100 mila forze lavoro potenziali) mentre la fascia dei disoccupati da sola ha visto un incremento di 462 mila unità, arrivando a 998 mila, pari al 116% in più.
Il dato è indicativo del fatto che, pur esistendo molti giovani che non vogliono lavorare e che non cercano lavoro (i cosiddetti “bamboccioni”), questo è più che altro un fenomeno cronico, mentre l’aumento più consistente è avvenuto tra coloro che sono alla ricerca di un lavoro, e per questo rientrano nella categoria dei disoccupati, ma che non riescono a trovarlo.
E per mostrare questa difficoltà basta scorgere l’evoluzione dell’occupazione italiana per classi d’età nell’arco di tempo 2005-2015.
È evidente che la fascia d’età 15-29 anni è quella che più vede un calo, anche al netto della diminuzione della popolazione nella fascia stessa. Al contrario gli over 55 vedono un aumento dei tassi di occupazione molto superiore all’aumento della popolazione.
Si dirà che un minor tasso di occupazione è dato dal fatto che i giovani sono impegnati in percorsi universitari e scolastici, ma sia i numeri delle immatricolazioni universitarie che i già citati dati sui NEET mostrano come questa tentativo di leggere positivamente il fenomeno non regge.
Chi lavora: sovraistruiti e a tempo parziale
Analizzando poi le condizioni di chi un lavoro ce l’ha lo scenario è altrettanto preoccupante. Il 37,1% degli occupati 15-34 anni è sovraistruito, ossia svolge mansioni inferiori a quelle per le quali ha studiato e possiede (teoricamente) competenze, tra gli adulti l’incidenza è invece solo del 13%.
Ciò non senza conseguenze, basti pensare la ricaduta in termini salariali e quindi di consumi di giovani che avendo investito in almeno 5 anni di formazione terziaria si vedono pagare stipendi inferiori a quanto il loro investimento gli aveva prospettato.
Le ore lavorate sono un altro nodo critico, infatti il part-time è più diffuso in questa fascia della popolazione e soprattutto è molto più elevata l’incidenza del part-time involontario, ossia quello non deciso dal lavoratore, che corrisponde al 77,5% dei contratti a tempo parziale contro il 57% degli adulti.
Una chiave interpretativa
È chiaro come l’impatto della crisi economica sia la causa principale della crescita sia del numero di NEET disoccupati che delle percentuali di sovraistruiti e di part time, ma è interessante provare a spiegare come mai nell’ultimo anno, in cui si è visto l’inizio di una debole ripresa sul fronte occupazionale (+186mila occupati) in uno con l’imponente sforzo del Governo mediante il programma Garanzia Giovani dedicato proprio a NEET, i giovani siano rimasti al palo.
Una possibile spiegazione emerge dallo stesso rapporto Istat. Nel 2015 circa tre imprese su quattro hanno assunto un under 30, ma se si analizza la dimensione aziendale emerge come siano le piccole imprese quelle ad aver preferito un giovane, al contrario più cresce la dimensione aziendale più ci si è concentrati sull’assunzione di lavoratori più anziani.
La differenza è notevole: se prendiamo in analisi il settore dei servizi (quello in cui si è creata più occupazione) passiamo dall’80% delle imprese fino a 49 addetti che hanno assunto un giovane a solo il 15% delle imprese con oltre 250 dipendenti.
Facile capire come i grandi numeri abbiano premiato i lavoratori adulti, e questo si spiega con la presenza durante l’anno di un incentivo generalizzato all’assunzione con contratto a tempo indeterminato, che, da un lato ha portato a moltissime trasformazioni di contratti già in essere e dall’altro ad assumere lavoratori con più anni d’esperienza. Lo prova il fatto che nelle grandi imprese solo il 21% delle nuove assunzioni riguarda nuovi rapporti di lavoro.
I numeri parlano chiaro, e vanno oltre la retorica giovanilistica, spesso alimentata dai giovani stessi. Certamente i giovani hanno le loro colpe, a volte mancano di iniziativa, si appoggiano troppo al supporto di famiglie che sono disposte a negare evidenze macroscopiche pur di difenderli ecc. Ma tutto questo non basta a spiegare la realtà di un mercato del lavoro nel quale lo spazio per le nuove generazioni è troppo ridotto.
E i mali cronici italiani, se non guariranno a breve, fanno presagire che lo scenario sarà sempre lo stesso. Il combinato disposto tra basso tasso di occupazione e aumento dell’età pensionabile rischia di confinare i giovani alla disoccupazione continua, aggravata dal pensiero utopico, smentito dai numeri stessi dell’Istat, che una staffetta generazionale risolverebbe il problema.
E pensare che i benefici potenziali di un ampliamento dello spazio per i giovani nel mercato del lavoro sarebbero innumerevoli, e a vantaggio di tutti: dall’impatto sulla produttività a quello sull’innovazione, dalla modernizzazione di tempi e luoghi di lavoro alla coesione sociale.
Non possiamo che sperare che la voce di queste centinaia di migliaia di giovani si faccia sempre più chiara, non come megafono di frustrazione, indignazione e ribellione, ma come proposta, elaborazione culturale e politica.
*pubblicato anche in 24 Job, 2 giugno 2016
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press