L’Istat, nell’ultimo rapporto sul lavoro, fornisce indicazioni che si prestano ad interpretazioni controverse.
Le rilevazioni riportano contemporaneamente un incremento del numero degli occupati ed un incremento del tasso di disoccupazione.
Naturalmente, visto che i dati, quando letti solo in modo parziale, sono utili alla propaganda, è partita la gara allo sguardo del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. La maggioranza vede solo il bicchiere mezzo pieno e urla di essere sulla strada giusta per il rilancio del lavoro. Le voci critiche o, comunque, realistiche notano che si è ben lontani dalla ripresa.
Qual è, allora, l’arcano che consente l’apparente contraddizione in termini di affermare che il lavoro sale mentre sale anche la disoccupazione?
L’errore che si commette è ritenere che esista, nelle rilevazioni statistiche, un rapporto diretto tra occupati e disoccupati. Si pensa, cioè, che le due categorie costituiscano due pezzi di un insieme, sicché se sale l’occupazione dovrebbe scendere la disoccupazione e viceversa.
Non è così, invece. I “tassi” rilevati ai fini delle valutazioni sul mercato del lavoro, implicano rapporti tra grandezze diverse tra loro.
Un primo ordine di grandezza è la popolazione residente, stimata dall’Istat nell’ultimo rapporto pubblicato il 28 novembre 2014 in 60,758 milioni di persone. Questa grandezza si suddivide, poi, nelle seguenti:
occupati | 22,552 milioni (37,1%) |
in cerca di occupazione | 3,010 milioni (5,0%) |
inattivi in età lavorativa (15-64 anni) | 14,322 milioni (23,6%) |
inattivi in età non lavorativa | 20,875 milioni (34,4%) |
Ora, il tasso di occupazione censito dall’Istat, pari al 55,6% è dato dal rapporto tra gli occupati e la popolazione potenzialmente attiva (le prime tre righe sopra).
Il problema del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da risultati largamente insoddisfacenti, è dato proprio dal tasso di occupazione, che è certamente molto basso, considerando che nel 2013 (fonte Eurostat) il tasso medio in Europa è del 64,1%, quasi 10 punti in più.
L’altra faccia della medaglia di questo problema è il gigantesco numero di persone inattive, 14,322 milioni. Questo bacino è a sua volta composto da una serie di sottoinsiemi:
chi cerca lavoro non attivamente ma è disponibile a lavorare | 2,121 milioni |
chi cerca lavoro ma non è disponibile a lavorare | 0,315 milioni |
chi non cerca lavoro ma è disponibile a lavorare | 1,512 milioni |
chi non cerca lavoro e non è disponibile a lavorare | 10,374 milioni |
Ora, informa l’Istat:
- che tra il 3° trimestre 2013 e il 3° trimestre 2014 il numero degli occupati è cresciuto di 122.000 unità;
- che, contestualmente, il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 410.000, aumenta del 2,7% rispetto al mese precedente (+90 mila) e del 9,2% su base annua (+286.000).
Il tasso di disoccupazione censito vola al 13,2%, che è il rapporto tra persone in cerca di lavoro (disoccupati) e persone che lavorano.
Si nota, allora, che i tassi ed i numeri sono rapportati in modo variabile tra loro. Il tasso di occupazione di determina in modo diverso da quello di disoccupazione.
Proprio per queste ragioni, se nell’arco di 12 mesi il numero totale degli occupati cresce di 122.000 unità, è perfettamente possibile che contestualmente cresca sia il numero dei disoccupati, sia il tasso di disoccupazione.
La causa è quel numero: 14,322 milioni di persone “inattive”, che né lavorano, né cercano attivamente lavoro. Basta che qualcuno di essi decida di andare verso una “ricerca attiva” di lavoro, cioè effettuare almeno un’azione attiva di ricerca (amministrativamente, basta rilasciare una dichiarazione di immediata disponibilità al lavoro ai centri per l’impiego, ma ai fini delle rilevazioni Istat è anche utile cercare tramite agenzie private), e si determina un “travaso” anche molto consistente di numeri dagli inattivi ai disoccupati veri e propri.
Il passaggio dallo status di “inattivi” a quello di disoccupati è ovviamente determinato da fattori contingenti: una necessità, prima non avvertita, di avere un reddito, dovuta all’incremento del costo della vita, o alla perdita di lavoro o di reddito di un componente della famiglia o altre cause.
Naturalmente, l’incremento del numero dei disoccupati e del tasso di disoccupazione può discendere anche dalla perdita del lavoro di chi prima era occupato.
Allora, scopriamo che il dato davvero significativo non è né il tasso di disoccupazione, né il numero dei disoccupati, né il numero degli occupati: è proprio il tasso di occupazione la spia rossa che deve destare allarme vero.
Infatti, è il tasso di occupazione che mostra quanti occupati il sistema riesce a garantire sulla popolazione di riferimento, cioè la popolazione potenzialmente attiva (composta di occupati, disoccupati ed inattivi in età lavorativa).
Tanto più il tasso di occupazione sale, tanto meno numerosi sarebbero non solo i disoccupati, ma soprattutto gli inattivi.
Nel comunicato stampa relativo al rapporto del novembre 2014, l’Istat afferma: «Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima».
Dunque, al di là di ogni altra considerazione, il mercato del lavoro in Italia è da considerare inerte, incapace di risollevarsi. Soprattutto, conferma un trend disastroso (fonte Eurostat):
Anno | Tasso di occupazione |
2003 | 56.1 |
2004 | 57.6 |
2005 | 57.6 |
2006 | 58.4 |
2007 | 58.7 |
2008 | 58.7 |
2009 | 57.5 |
2010 | 56.9 |
2011 | 56.9 |
2012 | 55.8 |
Da notare che la faticosa ascesa del tasso di occupazione si è avuta in anni nei quali l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori era pienamente applicabile, mentre si ha una caduta verticale, mai più rimediata, nel 2012 (quando il tasso risulta inferiore perfino a quello del 2003), anno di sostanziale disapplicazione dell’articolo 18 per effetto della legge Fornero, con ulteriore peggioramento nel 2013, di fatto confermato nel 2014.
Ciò dimostra quel che è perfettamente noto: la crisi economica impedisce la creazione di rapporti di lavoro, non il sistema giuridico. Non è con le leggi che si creano posti di lavoro; le leggi, semmai, possono adeguare il mercato e le regole a diversi modi di produrre (forse la distinzione tra “autonomi” e “subordinati” andrebbe vista sotto luci completamente diverse), ma non hanno alcun effetto sulla capacità del sistema di fornire opportunità di lavoro.
Né deve trarre in inganno il comunicato entusiastico del Ministero del lavoro sui 400.000 posti a tempo indeterminato dell’ultimo trimestre 2014, che dimostrerebbe gli effetti benefici del decreto-Poletti.
Osservando il trend degli avviamenti totali (ultima colonna a destra) dell’analisi fatta dalla Uil sui dati indicati dal Ministero del lavoro in relazione alle comunicazioni obbligatorie di novembre 2014 (CO III TRIM 2014) si nota che detto flusso degli avviamenti totali al lavoro dal 2011 è in costante diminuzione. Totalmente insensibile, dunque, alla riforma Fornero, alla riforma (se tale vogliamo chiamarla) Giovannini ed al decreto-Poletti.
I numeri, dunque, visti nel loro insieme e con le loro esplicazioni, illustrano la realtà. Soffermarsi su dati parziali e senza spiegarli, significa solo fare propaganda.
Luigi Oliveri
Dirigente Coordinatore Area Servizi alla Persona e alla Comunità
Provincia di Verona
@Rilievoaiace
* Pubblicato anche in rilievoaiaceblogliveri, 29 novembre 2014.
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