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Bollettino speciale ADAPT 4 maggio 2023 n. 2
Dopo un lungo susseguirsi di indiscrezioni e smentite abbiamo finalmente gli elementi per analizzare la riforma, o meglio il superamento, del reddito di cittadinanza proposto dal governo nel dl lavoro. La ratio principale del provvedimento sembra essere duplice. Da un lato una riduzione della platea dei beneficiari, dall’altro la spinta (non troppo “gentile”) a chi si ritiene possa lavorare a cercare e trovare un lavoro.
Due elementi che, nella struttura che emerge dal decreto, sono profondamente intrecciati tra loro. Infatti dopo le anticipazioni in merito alla riduzione della soglia Isee da 9.360 a 7.200 euro per poter accedere al nuovo “Assegno di inclusione”, questa è stata mantenuta al livello originario, lo stesso del Reddito di cittadinanza. La riduzione della platea non passerà quindi da un taglio dei requisiti economici d’accesso ma a quello relativo alla categoria di occupabile e non-occupabile. Un criterio costruito su basi anagrafiche (minore di 18 anni o dai 60 anni in su) e sull’inabilità al lavoro, così che tutti coloro che hanno tra i 18 e i 59 anni e non hanno nel proprio nucleo famigliare un non-occupabile non percepiranno il sussidio. Per i cosiddetti occupabili sarà infatti previsto il nuovo “Supporto per la formazione e il lavoro”, che verrà erogato solo a chi ha iniziato un progetto di “formazione, di qualificazione e riqualificazione professionale, di orientamento, di accompagnamento al lavoro e di politiche attive del lavoro” e nel limite di 350 euro mensili di indennità.
Questo modello sembra partire dall’idea che, per le persone considerate occupabili, non serva un sussidio generale ma solo un trasferimento economico connesso ad una specifica attività che ne confermi l’attivazione, e da qui la forma dell’indennità di partecipazione. Un principio di per sé condivisibile che porta però con sé almeno due problemi non da poco.
Il primo è che per anni, giustamente, ci si è lamentati dell’inefficienza del sistema delle politiche attive in Italia e dell’efficacia dei servizi per il lavoro, soprattutto quelli pubblici. E ora, pur coscienti che poco o nulla è cambiato su questo fronte, tutto d’un tratto si affida completamente la sopravvivenza di centinaia di migliaia di persone al fatto (che parrebbe così dato per scontato) che troveranno un corso di formazione. E non solo lo troveranno, ma lo troveranno subito (perché nel frattempo rimarranno senza sussidio), e questo avverrà a partire dagli stessi servizi al lavoro che con Garanzia Giovani hanno lasciato altrettante centinaia migliaia di persone registrate senza alcuna proposta. Lo stiamo vedendo anche con il piano GOL, sulla cui infrastruttura inevitabilmente si innesterà il Supporto per la formazione e il lavoro. Ad oggi le persone sono state prese in carico ma molto poco è stato fatto sul fronte della loro concreta attivazione.
Inoltre se già è difficile dare per scontato che si verrà inseriti rapidamente in uno dei corsi di cui sopra, ancor più difficile è immaginare che questo porti automaticamente a trovare un lavoro. Perché spesso si dimentica le caratteristiche di questa platea di occupabili, in larga parte persone che non lavorano da molti anni, con un livello di alfabetizzazione molto basso, senza competenze necessarie a chi dovrebbe assumerli. In aggiunta a questo, è difficile comprendere la scelta di prevedere un incentivo per le imprese che assumono unicamente beneficiari di Assegno di inclusione e non di Supporto per la formazione e il lavoro, che dovrebbero essere invece coloro che hanno la maggior urgenza anche considerata la scarsa indennità oltre al loro versare in condizioni economiche peggiori degli altri, in virtù del requisito d’accesso ISEE di soli 6.000 euro.
Si danno quindi per scontati una serie di elementi che sono tutt’altro che scontati, ultimo il fatto che una impresa, fosse anche in difficoltà nel trovare personale, assuma chi ha profili molto critici. Il rischio che molte di queste persone verranno spinte ad accettare lavoretti, magari in nero e di scarsa qualità e durata poiché non hanno le risorse necessarie per la loro sussistenza è molto elevato.
E qui emerge il secondo elemento di criticità, ossia il fatto che non si capisce perché una persona impegnata in questi percorsi, e che quindi manifesta una volontà di attivazione e di concreta ricerca del lavoro, debba percepire una indennità bassissima (350 euro) con la quale, è evidente a tutti, è impossibile vivere. Se una persona si è attivata e si dà per scontato, come appare, che quel percorso lo porterà a un lavoro certo allora dovrebbe percepire la cifra almeno pari a quella di chi non è attivo per altre ragioni (non-occupabile), salvo non voler tradire una intenzionale finalità punitoria nei suoi confronti che però mal si combina con la volontà di creare un vero incontro tra domanda e offerta di lavoro.
In questi due elementi sta tutta la criticità del nuovo impianto del sussidio. In una separazione tra chi può e chi non può lavorare che ha teoricamente senso ma che si scontra con il fatto che non ci sia equità di trattamento e soprattutto che parallelamente non si sia presa in considerazione una riforma dei servizi per il lavoro sui quali pure si basa tutta la logica del Supporto per la formazione e il lavoro. E il fatto che il governo si era dato un anno di tempo per riformare il Reddito di cittadinanza, con una forte insistenza, anche corretta, sulla componente lavoristica, faceva invece immaginare che ci fosse la consapevolezza di questa necessità.
In sua assenza non si farà altro che ripetere lo stesso errore dell’impianto originario dello strumento, con l’aggravante della forte penalizzazione di persona in larga parte già in difficoltà. Se infatti il malfunzionamento del Reddito di cittadinanza portava comunque a una distribuzione in eccesso di risorse senza che queste implicassero una vera attivazione, in questo caso avviene il contrario. Il malfunzionamento si traduce in una riduzione di risorse a una fetta ampia di popolazione che si troverà senza reddito e senza lavoro. In entrambi i casi il problema è generato dalla stessa causa, ossia la mancata volontà di una profonda riforma del sistema delle politiche attive del lavoro in Italia. E così facendo si ricade nello stesso inganno di fagocitare tutto il tema delle politiche attive all’interno del discorso sui sussidi per la povertà, e quindi rendendole di fatto inefficienti sia per la fascia bassa che per quella alta del mercato del lavoro.
La colpevolizzazione degli occupabili diventa così il nuovo alibi per non riformare il mercato del lavoro italiano davanti alle sfide che l’economia e la società di oggi gli sta continuamente lanciando. E quindi non potremo che osservare, a breve, il riaffermarsi delle vecchie logiche che agiscono incontrollate: lavoro irregolare, mancato incontro tra domanda e offerta, proliferazione di lavoro a basso valore aggiunto.
Francesco Seghezzi
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione in Transizioni occupazionali e relazioni di lavoro