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Bollettino ADAPT 17 maggio 2021, n. 19
Una recente sentenza di merito (Trib. Foggia, 18 febbraio 2021) ha riaperto il dibattito sulla procedura premiale della diffida prevista per la “maxisanzione” contro il lavoro sommerso. Il punto controverso riguarda la funzione da attribuire alla condizione, posta al fine di beneficiare del pagamento in misura minima della sanzione, del mantenimento in servizio per almeno tre mesi dei lavoratori coinvolti nell’accertamento ispettivo. Secondo la tesi prevalente, tale condizione ha valenza oggettiva e, ai fini della concessione del beneficio, deve realizzarsi compiutamente, a prescindere dalle cause dell’eventuale interruzione; secondo la tesi contrapposta – sostenuta dal Tribunale di Foggia – deve invece tenersi conto dell’impossibilità di adempimento datoriale, derivante da causa a questo non imputabile.
La procedura speciale di diffida nella fattispecie della “maxisanzione”
L’art. 22 del d.lgs. 151/2015 (nel contesto normativo del c.d. Jobs act), modificando l’articolo 3 d.l. n. 12/2002, conv. dalla l. 73/2002, ha reintrodotto la procedura di diffida per la “maxi-sanzione” del lavoro sommerso, con l’annesso beneficio dell’ammissione al pagamento del minimo edittale delle sanzioni. Ai fini della concessione di tale beneficio, il datore di lavoro è onerato non solo, come stabilisce la disciplina generale dell’art. 13 del d.lgs. n. 124/2004, di regolarizzare le inosservanze rilevate – nella specie i rapporti di lavoro accertati come sommersi in sede ispettiva – ma anche di mantenere in servizio i lavoratori per un periodo minimo di tre mesi. In particolare, il datore di lavoro è tenuto a stipulare un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche a tempo parziale con riduzione dell’orario non superiore al 50%, ovvero un contratto a termine a tempo pieno purché di durata non inferiore a 3 mesi. Pertanto, la legge subordina la concessione del beneficio del minimo edittale delle sanzioni alla condizione speciale del mantenimento in servizio dei lavoratori per il periodo minimo menzionato.
La prova della avvenuta regolarizzazione e del pagamento delle sanzioni, dei contributi e dei premi previsti va fornita entro il termine di 120 giorni dalla notifica del verbale unico di accertamento e notificazione di cui all’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 124/2004. Tale termine, che deroga a quello ordinario di 45 giorni previsto dal combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’art. 13 cit., si spiega evidentemente con la necessità di consentire, da un lato, al datore di lavoro l’effettivo mantenimento in servizio dei lavoratori per il periodo minimo previsto, e dall’altro, al personale ispettivo la conseguente verifica dell’adempimento.
Secondo il Ministero del lavoro (Circ. n. 26/2015), l’adempimento alla diffida costituisce «elemento oggettivo di applicabilità della sanzione minima»; ne consegue che qualunque ragione ostativa all’effettivo mantenimento del rapporto lavorativo, per il periodo previsto, preclude l’accesso alle agevolazioni sanzionatorie della diffida. In altri termini, l’impostazione di prassi ministeriale non ritiene rilevanti gli eventuali impedimenti, indipendenti dalla volontà datoriali, alla prosecuzione del rapporto. Si possono citare i casi delle dimissioni del lavoratore, ovvero del licenziamento per giusta causa; quest’ultimo è il caso sottoposto allo scrutinio del Tribunale di Foggia. In definitiva, il trasgressore deve sopportare il rischio dell’interruzione, per qualunque motivo, del periodo di tre mesi di mantenimento in servizio, o dell’impossibilità di instaurare tale rapporto. Invero, in tali casi, il datore di lavoro non può accedere all’agevolazione dell’estinzione anticipata del procedimento sanzionatorio con il versamento del minimo edittale della sanzione e dovrà, a tal fine, versare l’importo ridotto, ai sensi dell’art. 16 della legge n. 689/81. In tal senso, il verbale unico, ai sensi del comma 5 dell’art. 13 del d.lgs. 124/2004, produce gli effetti della notificazione delle violazioni accertate nei confronti dell’autore delle stesse e degli eventuali obbligati solidali. L’Ispettorato nazionale del lavoro non ha modificato l’orientamento ministeriale riportato.
La giurisprudenza
In argomento si registrano talune pronunce di merito, dagli indirizzi non univoci. Secondo un primo orientamento (App. Genova, 25 marzo 2019, n. 105), che aderisce alla posizione ministeriale sopra sintetizzata, «il tenore dell’art. 22 comma 3 ter rivela chiaramente come l’adempimento alla diffida costituisca elemento oggettivo di applicabilità della sanzione in misura minima, senza che sussista uno spazio per valutare le ragioni del mancato adempimento e, quindi, anche l’impossibilità sopravvenuta per causa non imputabile al datore di lavoro». Il giudice sostiene, inoltre, che l’ammissione della possibilità di valutare nel merito i motivi dell’inadempimento lascerebbe spazio ad accordi elusivi tra il datore di lavoro ed il lavoratore, finalizzati ad usufruire della riduzione della sanzione evitando nel contempo gli oneri di una regolare assunzione per almeno tre mesi. Va ancora considerato, a parere della Corte ligure, che l’art. 22 comma 3 ter introduce una agevolazione in favore di un soggetto che è pur sempre sottoposto a sanzione per aver posto in essere una condotta gravemente illecita. Pertanto, detta agevolazione non può operare in mancanza di una delle condizioni normativamente richieste, non sussistendo possibilità di valutare le ragioni del suo non avveramento e, quindi, anche se non si sia verificata per causa non imputabile al datore di lavoro. Nello stesso filone interpretativo si pone un’ulteriore pronuncia, con argomentazioni analoghe a quelle della Corte genovese (Trib. Trento, 1° dicembre 2020, n. 163).
Sul fronte contrapposto, invece la citata sentenza del Tribunale di Foggia, secondo cui l’interpretazione del Ministero del lavoro espone il datore di lavoro al mancato rispetto della procedura di regolarizzazione, con perdita del beneficio del pagamento delle sanzioni al minimo edittale, senza che vi sia una responsabilità del datore di lavoro in termini di dolo o colpa. Il giudice sostiene che ciò significherebbe attribuire alla parte datoriale anche la responsabilità di atti risolutivi del rapporto di lavoro posti in essere dal lavoratore, quali le dimissioni volontarie, ovvero non addebitabili al datore di lavoro, come il licenziamento per giusta causa del dipendente che sia incorso in gravi mancanze. Tale opzione interpretativa, secondo il Tribunale, si discosta dalle regole di imputazione della responsabilità degli atti negoziali, poiché sarebbe irragionevole imputare al datore di lavoro una sanzione in caso di mancanza assoluta di sua responsabilità. Nella fattispecie di cui in sentenza, la risoluzione del rapporto di lavoro è addebitabile esclusivamente al lavoratore: secondo il giudice pugliese, non è ragionevole ritenere che, nel caso di gravi violazioni del vincolo fiduciario da parte del lavoratore, il datore di lavoro debba rinunciare ad esercitare la sua legittima prerogativa del licenziamento per non perdere i benefici premiali connessi all’ottemperanza alla diffida.
Osservazioni conclusive
Il dilemma che sorge dagli indirizzi contrastanti della giurisprudenza riguarda, dunque, la correttezza del ragionamento ministeriale che sostiene l’irrilevanza delle cause dell’interruzione anticipata dei rapporti di lavoro regolarizzati, ai fini del disconoscimento dell’agevolazione della misura minima delle sanzioni.
Per affrontare correttamente la questione, sembra opportuno prendere le mosse dalla disciplina dell’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, dettata dall’art. 3 della legge n. 689/81, che dispone: «Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa». Quindi, la responsabilità per illecito amministrativo è non solo personale ma anche colpevole, richiedendo la partecipazione psicologica del soggetto al fatto compiuto. Ne deriva che il sistema sanzionatorio amministrativo, come quello penale, ripudia certamente la responsabilità oggettiva, fondata sul mero nesso di causalità materiale tra condotta ed evento lesivo.
Tuttavia, bisogna osservare che la sintetizzata disciplina dell’elemento psicologico, con la connessa esclusione della responsabilità oggettiva, pertiene al fatto illecito e non già a elementi a questo estranei, quali le condizioni poste dalla legge ai fini della concessione dei benefici di pena. Ne deriva che se nella disciplina di quelle condizioni non si rinvengono elementi diretti ad attenuarne il rigore, non pare corretto invocare i principi della responsabilità colposa o dolosa. Tale assunto non sembra contraddetto dal consolidato riconoscimento pretorio dell’estinzione agevolata del procedimento sanzionatorio quale diritto soggettivo dell’interessato (cfr., da ultima Cass. 26 febbraio 2021, n. 5439), giacché tale diritto è nella fattispecie sottoposto ai requisiti oggettivi analizzati, senza alcuna considerazione normativa di eventuali scusanti sul piano psicologico. Occorre aggiungere che tale diritto non può dirsi conculcato nel caso specifico, giacché l’impossibilità di versare gli importi nel minimo edittale si traduce non già nella sottoposizione dell’interessato a titoli esecutivi e alla conseguente procedura di riscossione coattiva, bensì, come già sopra osservato, nella facoltà di versare l’importo ridotto ai sensi dell’art. 16 della legge n. 689/81 (art. 13, comma 5, del d.lgs. n. 124/2004) e, pertanto, di estinguere con ulteriore agevolazione il procedimento sanzionatorio. Infine, l’orientamento giurisprudenziale menzionato non contrasta con quanto qui sostenuto, giacché esso si riferisce proprio all’art. 16 cit., quale norma che fonda il diritto all’estinzione favorevole del procedimento punitivo.
Sembra, pertanto, da escludere la configurabilità, nella fattispecie in esame, di una responsabilità oggettiva a carico del datore di lavoro, giacché questi risponde della condotta colposa o dolosa di aver impiegato personale non denunciato alla pubblica amministrazione, secondo gli ordinari canoni di colpevolezza dell’illecito amministrativo (art. 3 della legge 689 cit.). La condotta di mantenimento in servizio è, come detto, solo una condizione – esterna all’illecito – per l’ammissione ai benefici sanzionatori e, come tale, non può ritenersi sottoposta ai detti canoni.
Carmine Santoro
Funzionario Ispettorato nazionale del lavoro
ADAPT Professional Fellow
* Per approfondimenti sulla fattispecie illecita del lavoro sommerso come riformata dal Jobs act si veda P. Rausei, La nuova maxisanzione contro il lavoro sommerso, in Dir. prat. lav., 2015, 42, 2389- 2399, nonché P. Rausei, C. Santoro, La revisione del sistema sanzionatorio, in M. Tiraboschi (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs act, Giuffrè, 2016, 516 ss..
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