Un fenomeno, quello della disuguaglianza salariale, ritenuto fisiologico e connaturato alla nostra società. È quanto emerge dai risultati della ricerca qualitativa condotta nell’ambito del progetto NEWIN – Negotiating Wage (In)equality e concretizzatasi nella somministrazione di un questionario semi-strutturato ai rappresentanti settoriali (credito e assicurazioni, metalmeccanico, scuola, distribuzione) e nazionali delle parti sociali (hanno risposto al questionario 8 rappresentanti datoriali e 5 sindacali).
Gli intervistati hanno subito espresso la volontà di distinguere tra due diversi aspetti della medesima realtà. Da un lato, la differenziazione retributiva, ritenuta non soltanto opportuna, ma anche indispensabile quando fondata su parametri coerenti e pertinenti a competenze e ruoli professionali, alle responsabilità e alla prestazione lavorativa, tanto da rendersi incentivante per il singolo lavoratore. Dall’altro, la discriminazione salariale, che allude a un diverso trattamento retributivo applicato a due medesime figure professionali, coinvolte nella stessa tipologia di lavoro e con identici livelli di performance.
Differenziali per categorie sociali
Giovani e donne, come è noto, sono tra le categorie più colpite dagli effetti distorsivi delle dinamiche salariali. Gli uni, sfavoriti dalla età anagrafica e dalle forme contrattuali con cui accedono per la prima volta al mercato del lavoro, dove vengono relegati a un livello di sottoinquadramento per un periodo mediamente più lungo rispetto a quello effettivo di formazione iniziale. Le altre, vittime di un anatema essenzialmente culturale che rende il loro avanzamento di carriera un processo lento e tortuoso e che unitamente alla loro propensione per essere impiegate a tempo parziale e alla loro concentrazione nel settore dei servizi, le costringe a una media salariale annua inferiore del 7 per cento rispetto a quella maschile (dati Eurostat 2013). Un gap evidente che preoccupa gli economisti e condiziona le lavoratrici italiane, penalizzate complessivamente dalle difficoltà di conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro. Eppure, affermano le parti sociali intervistate, molto si sta facendo per contrastare il divario retributivo legato al genere. Il 31 dicembre 2014, infatti, la percentuale di donne che lavoravano in banca (45 per cento) era superiore di 0,3 punti percentuali rispetto a quella del 2013 e di 13,6 punti percentuali rispetto a quella del 1997. Conseguentemente, il differenziale occupazionale tra i sessi (37,8 per cento nel 1997 e 10,6 per cento nel 2014) registrava una riduzione di oltre 27 punti percentuali (dati ABI). Tuttavia, si tratta di un settore, quello creditizio e finanziario, dove la percezione della disuguaglianza salariale è medio-bassa e le retribuzioni tabellari sono di gran lunga più elevate rispetto agli altri comparti produttivi italiani.
Differenziali intersettoriali
Con 40.782 euro lordi all’anno, infatti, i dipendenti degli istituti di credito e delle assicurazioni sono tra i lavoratori più pagati in Italia. Ultime nella classifica sulla rimuneratività sono invece le prestazioni svolte nelle società di servizi, in edilizia e in agricoltura con una retribuzione media lorda annua pari rispettivamente a 27.412, 25.553 e 24.596 euro. A confermarlo è il recente rapporto di Job Pricing (JP Salary Outlook 2015), che rivela altresì come a gravare sulle disuguaglianze salariali intersettoriali sia soprattutto la concentrazione di lavoratori altamente qualificati nei comparti economici dove più alta è l’intensità di capitale e tecnologia: banche e servizi finanziari, in primis, ma anche farmaceutica e biotecnologie, telecomunicazioni e industria chimica.
Differenziali territoriali
Emerge, inoltre, tanto dalle ricerche documentarie quanto dalle parole degli intervistati, una discreta rilevanza del dato territoriale: è il Sud Italia, secondo le rappresentanze, a soffrire maggiormente, soprattutto in considerazione del minore tasso di istruzione dei lavoratori del Mezzogiorno, bloccati a livelli inferiori di inquadramento e a fasce retributive più basse, con minori possibilità di accesso ai vertici aziendali. Dal 2002 al 2007, gli operai impiegati nelle regioni settentrionali percepivano mediamente un salario superiore di circa il 15 per cento rispetto ai loro colleghi delle regioni meridionali. Un preoccupante divario interregionale, su cui pesano non soltanto le diverse qualifiche professionali e le condizioni economiche territoriali, ma anche la disomogenea diffusione della contrattazione collettiva aziendale di produttività: discreta nelle medie e grandi aziende del Nord, scarsa o quasi assente nella gran parte delle realtà produttive del Sud e delle isole, dove alla prestazione lavorativa si corrispondono quasi esclusivamente i minimi fissati a livello nazionale (P. Casadio, Contrattazione aziendale e differenziali salariali territoriali, approfondimento contenuto in Banca d’Italia, L’economia della regioni italiane nell’anno 2008, 2009).
Differenziali occupazionali
La forbice retributiva più ampia è tuttavia quella che separa i diversi ruoli professionali. Alla base della piramide si trovano le mansioni standardizzate, strumentali e funzionali a quelle considerate maggiormente strategiche. Al vertice, si colloca il top management, i cui livelli salariali (in Italia «un dirigente guadagna mensilmente un netto pari a 3,2 volte un operaio», informa ancora Job Pricing) alimentano il dibattito politico e sociale sulla necessità di porre limiti massimi alle retribuzioni. Eppure, la maggioranza degli intervistati si dichiara reticente nei confronti di questa soluzione, sottolineando invece l’importanza di legare le retribuzioni di dirigenti e amministratori delegati a obiettivi di risultato e plusvalore aziendale ottenuto.
Negoziare flessibilità salariali contro le discriminazioni
Nella determinazione del salario, confermano le rappresentanze, dovrebbero incidere fattori qualitativi come le conoscenze tecniche, acquisite attraverso l’istruzione e la formazione, e le cosiddette soft skills, o competenze trasversali, legate prevalentemente all’esperienza professionale maturata. Sembra appartenere ad altri tempi, quindi, la convinzione che il salario del lavoratore debba essere correlato esclusivamente alla sua anzianità e all’inquadramento professionale: parametri che sono tuttavia ancora tenuti in considerazione nelle dinamiche retributive. In effetti, gli “automatismi” salariali, e in particolare i c.d. “scatti di anzianità”, ricorrono all’interno di tutti i settori economici esaminati dal progetto, dove sono articolati in fasce retributive, di cadenza media triennale, e collegati ai diversi livelli di inquadramento declarati nel Ccnl di riferimento. Così in Italia, nonostante le diverse intenzioni dei rappresentanti intervistati, gli incrementi salariali si legano all’anzianità di servizio e le remunerazioni tendono ad aumentare al crescere dell’età anagrafica (ISTAT 2013). Conseguentemente, nel 2014 il gap retributivo generazionale tra chi stava per concludere la propria carriera lavorativa e chi si trovava in procinto di iniziarla era del 107 per cento (Job Pricing 2015).
Eppure, anche in un’ottica di progressivo allineamento tra salari e produttività, le performance individuali e aziendali dovrebbero acquisire un valore prioritario, come testimoniato dall’impegno delle rappresentanze sindacali e datoriali nel negoziare strumenti di incentivazione salariale in sede di contrattazione decentrata. È proprio in questo contesto, infatti, che si gioca non soltanto la partita della produttività dei singoli settori, ma anche quella contro la discriminazione retributiva.
L’ultima domanda posta alle parti sociali riguarda l’introduzione di un salario minimo legale. Questa soluzione, rivelano gli intervistati, potrebbe non avere effetti sulla riduzione delle disuguaglianze, ma ripercussioni negative sulla contrattazione di primo livello, che vedrebbe il proprio ruolo svuotato di importanza.
Complessivamente, i rappresentanti sindacali e datoriali, interpellati nell’ambito del progetto NEWIN, dimostrano non soltanto di conoscere le diverse dimensioni delle disuguaglianze in Italia ma di avere anche le idee chiare su come determinare le differenze retributive, al fine di renderle un fattore sì fisiologico e naturale, ma sempre meno patologico e discriminante, nel mercato del lavoro del nostro Paese. Puntare sulla professionalità e premiare le reali competenze del lavoratore sono le direttrici da seguire per fare della contrattazione collettiva lo strumento più idoneo contro le disuguaglianze. Associare i livelli salariali alla qualità e produttività della prestazione lavorativa risulta allora, dalla prospettiva delle parti sociali, una precondizione necessaria per la parità di trattamento e il migliore antidoto contro le discriminazioni.
ADAPT Junior Research Fellow
@ilaria_armaroli
ADAPT Junior Research Fellow
@A_Tolent