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Bollettino ADAPT 17 giugno 2024 n. 24
Trent’anni fa Jeremy Rifkin annunciava niente meno che la fine del lavoro. Nulla di nuovo e nulla di sconvolgente per chi si occupa del rapporto tra innovazione tecnologica e dinamiche del mercato del lavoro. Già un secolo fa, nel pieno di una depressione mondiale che aveva innescato sofferenze e preoccupazioni crescenti per la velocità del cambiamento, John Maynard Keynes indicava nel 2030 la liberazione dal lavoro ad opera di macchine e tecnologie sempre più avanzate. Da questo momento il dibattito pubblico sul cambiamento tecnologico vede contrapporsi due schieramenti molto polarizzati, quello dei tecno-ottimisti e quello dei tecno-pessimisti. I decisori politici e le stesse parti sociali non sono aiutati da questa polarizzazione tra due estremi. È stato così negli anni Ottanta con l’introduzione dei primi sistemi informatici nelle imprese, soprattutto manifatturiere e poi con i timori della fase post recessione in cui lo spettro dell’Industria 4.0 sembrava minacciare milioni di posti di lavoro. Ed è così oggi con la paura generata dall’intelligenza artificiale e in particolare da quella generativa che abbiamo imparato a conoscere con Chat GPT e non solo.
Ancora poco o nulla approfondito è invece un punto centrale di questa trasformazione tecnologica, e cioè il suo impatto nel medio e soprattutto nel lungo periodo, non tanto e non solo sui livelli di occupazione, ma sulla qualità del lavoro, sui salari e sulle crescenti e sempre più evidenti diseguaglianze. Non a caso lo stesso Rifkin (a conferma che il suo libro è stato molto citato ma anche poco letto) non ha mai parlato della fine del lavoro. Se mai della non sostenibilità – e quindi della possibile fine – di un sistema incentrato sul solo valore economico di scambio del lavoro che, con la significativa contrazione del numero di lavoratori nelle fabbriche e nel settore manifatturiero, ha portato alla istituzionalizzazione di forme di lavoro precario e alla emersione di una classe sempre più estesa di lavoratori poveri.
Nell’ultima relazione annuale Banca d’Italia ha sviluppato un focus sulle potenziali conseguenze dell’intelligenza artificiale sui lavoratori italiani, secondo il quale circa due terzi degli occupati attuali sarebbero esposti alla sua introduzione con un 40% per i quali vi sarebbe complementarità e circa il 25% che rischierebbero invece la sostituzione. In questa nuova ondata i rischi sarebbero concentrati maggiormente nei servizi, con la manifattura e l’agricoltura che vedrebbero impatti minori sul lavoro. Si tratta solo degli ultimi dati diffusi nell’area del dibattito politico. Che riflettono un confronto iper-specialistico che, tra economisti e sociologi ma non solo, si sta sempre più accendendo. Di particolare interesse sono allora alcuni recenti studi americani che hanno spostato l’attenzione, rispetto alle tendenze di lungo periodo, dai livelli di occupazione alle condizioni di lavoro segnalando come il rapporto tra tecnologie di nuova generazione e salari sia un aspetto importante da sottolineare proprio perché spesso viene minimizzato o del tutto ignorato.
Parte del dibattito internazionale, sostanzialmente non considerato oggi in Italia (anche per l’assenza di grandi player tecnologici), va in effetti nella giusta direzione di chiedersi quale sia l’intelligenza artificiale che vogliamo introdurre nelle imprese e a quale scopo vogliamo farlo. E questo, in Paesi come il nostro dove la rappresentanza e i corpi intermedi hanno ancora un ruolo importante, riporta il dibattito sulle nuove tecnologie non su scenari ipotetici ma sulle scelte che siamo chiamati a fare, a partire dalle dinamiche della contrattazione collettiva a livelli di settore, aziende e territori, per governare un cambiamento indubbiamente inevitabile e che tuttavia deve essere orientato ai bisogni dell’uomo e non il contrario. L’obiettivo è quello di aumentare la produttività di alcuni processi fornendo nuovi strumenti e anche incrementi salariali ai lavoratori? O è quello di sostituire determinati lavori per i quali, ad esempio, si faticano a trovare le persone? L’introduzione dell’intelligenza artificiale vuole in qualche modo rispondere ai rischi di svuotamento del mercato del lavoro generati dai cambiamenti demografici e quindi rispondere alla crisi dell’offerta che già stiamo vivendo? Sono domande alle quali tutti gli attori interessati, a partire dalle istituzioni pubbliche che con la leva fiscale possono o meno incentivare l’introduzione di determinate tecnologie, devono porsi rilanciando una politica a sostegno (e non detrimento) della qualità dei sistemi di relazioni industriali così da accompagnare scelte corrette non solo in termini di efficienza ma anche di giustizia e sostenibilità nel lungo periodo.
Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT
Università di Modena e Reggio Emilia
@MicheTiraboschi
*pubblicato anche su Avvenire, 14 giugno 2024