Le novità (e le mancanze) della Circolare 5/E sul welfare aziendale

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Il 29 marzo 2018 l’Agenzia delle Entrate ha pubblicato l’attesa circolare numero 5/E dedicata a «Premi di risultato e welfare aziendale». Il titolo è lo stesso della circolare emanata nel 2016 (numero 28/E), divenuta negli anni punto di riferimento per l’interpretazione (non senza equivoci) delle tante novità sui temi in oggetto, regolati dalla Legge di Stabilità 2016. Nel lungo intervallo tra l’emanazione dei due documenti sono stati approvati anche l’art. 55 del decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 21 giugno 2017, n. 96 e le Leggi di Bilancio 2017 e 2018. Tuttavia, prima ancora che essere rilevanti gli interventi legislativi bisognosi di chiarimenti, nell’arco di quasi tre anni si sono accumulate numerosissime ed eterogenee casistiche pratiche di difficile interpretazione secondo le categorie legislative e per questo idonee ad essere trattate in documenti di prassi. A riprova di questo fermento di esperienze, generate dal crescente gradimento di imprese, lavoratori e parti sociali verso il welfare aziendale, basti citare i tanti interpelli regionali pubblicati in questi stessi anni e le varie istanze presentate presso la Direzione Centrale Coordinamento Normativo dell’Agenzia delle Entrate; la stessa Direzione che nei giorni scorsi ha curato la pubblicazione della nuova “maxi circolare” (45 pagine!) finalizzata proprio a sciogliere i tanti quesiti.

 

Nelle pagine che seguono l’attenzione sarà rivolta ai contenuti attinenti al welfare aziendale, più che ai premi di risultato o alla partecipazione azionaria dei dipendenti: si tratta della sezione di gran lunga più estesa del documento, nonché di quella contenente i passaggi più controversi (d’altra parte la disciplina del premio di risultato è oramai consolidata e conosciuta, a differenza di quella relativa al welfare aziendale, tanto “di moda” quanto, ancora, poco approfondita).

 

 

1. Una circolare “didattica”

 

La prima considerazione, di carattere generale, attiene a quanto poc’anzi premesso relativamente alle finalità della Circolare n. 5/E. Se infatti è evidente che l’Agenzia abbia voluto chiarire i diversi interventi legislativi succedutisi negli anni, colmando così la mancata pubblicazione di una circolare anche nel 2017 (che pure era assai attesa dagli operatori e sulla bozza della quale è stato chiaramente costruito questo intervento), non è altrettanto verificabile la volontà della Agenzia di utilizzare questo testo come occasione di scioglimento dei tanti nodi emersi dalla pratica quotidiana del welfare aziendale, dei quali la stessa Agenzia è certamente conscia, non foss’altro perché riceve “fotografia” di alcuni di questi tramite interpelli (di aziende) e consulenze giuridiche (di associazioni di rappresentanza). Di conseguenza la gran parte delle pagine è riempita di spiegazioni, preziose, sui contenuti delle Leggi di Stabilità 2017 e 2018; molto meno spazio è dedicato all’analisi di fattispecie diffuse, per quanto specifiche, non direttamente affrontate dal Legislatore. Chiaramente gli affondi analitici sugli articoli di legge diventano anche occasione per esprimersi su situazioni diffuse e di incerta interpretazione (si veda, su tutte, quanto scritto dalla Agenzia a proposito delle casse sanitarie aziendali, di cui sarà meglio scritto in seguito), senza mai però un esplicito intento di approfondimento di casistiche reali. In questo senso, si potrebbe definire la circolare 5/E un supporto didattico più che un testo di approfondimento e critica.

 

A questa osservazione di scenario, seguono riflessioni sui punti specifici trattatati dalla Agenzia, che saranno presentati per rilevanza e non seguendo l’ordine scelto dall’estensore del documento amministrativo.

 

 

2. Alcuni chiarimenti sulle lettere f): obbligatorietà e regolamento aziendale (pag. 27)

 

Nonostante la grande diffusione di “buoni spesa” ex comma 3 dell’articolo 51 del TUIR, la rilevanza sociale delle soluzioni regolate dalle lettere a) ed h) del comma 2 dello stesso articolo (si tratta delle già citate forme di assistenza sanitaria integrativa e di previdenza complementare) e la recentissima apertura ai benefit di cui al comma 4 (trattati anch’essi  in queste pagine), a detta di molti osservatori i contenuti più originali del moderno welfare aziendale sono da ricercarsi nell’ampio spettro di soluzioni contenute nelle lettere f), f-bis), f-ter) e f-quater) del secondo comma dell’articolo 51. Alla lettera f-quater), trattandosi di una novità della Legge di Bilancio 2017, l’Agenzia ha dedicato un intero paragrafo, piuttosto descrittivo e non problematico nei contenuti.

 

Degno di maggiore attenzione è invece il paragrafo 3.2 rubricato «Benefit erogati in base a contratto nazionale – art. 51, co. 2, lett. f), del TUIR». Il titolo, che richiama la norma interpretativa approvata nella Legge di Bilancio 2017 per coprire (rectius: permettere) i “flexible benefits” regolato dal contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici nello stesso periodo, inaugurando così la (positiva!) stagione del “welfare aziendalnazionale”, non individua il contenuto più discutibile della sezione. Questo è invece sinteticamente sentenziato dalla frase: «Si ritiene che [le lettere f-bis), f-ter) e f-quater)] costituiscano una specificazione degli oneri di utilità sociale indicati nella lett. f) e, in quanto tali, da disciplinare unitariamente». Si tratta di una enucleazione in effetti logica giuridicamente e per la grammatica della disposizione legislativa; tuttavia non scevra di effetti pratici nella esecuzione di alcuni piani aziendali. Ciò che rileva in particolare è il combinato disposto tra la lettera f) (o, meglio, adesso, le lettere f) e l’articolo 100 del TUIR: non sono quindi soltanto le soluzioni aventi finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto (ex articolo 100 e lettera f), appunto) ad essere interamente deducibili (e non nella misura del cinque per mille dell’ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente) se sostenute obbligatoriamente (e non volontariamente), ma anche le soluzioni per i famigliari dei dipendenti di cui alle lettere f-bis) e f-ter) e le soluzioni assicurative di cui alla lettera f-quater).

 

Inevitabilmente connesso a questo argomento è anche quello delle situazioni giuridiche che determinano l’obbligatorietà del piano, individuate senza alcun equivoco dalla norma in «accordo, contratto o regolamento aziendale». I primi due, come si è appena scritto, possono essere anche nazionali, addirittura interconfederali; il terzo deve essere aziendale, come pacificamente chiarito dalla prassi e dalla dottrina che con questa espressione del TUIR, in altre parti, si è confrontata più volte. Ciononostante, l’Agenzia, come già nella circolare 28/E del 2016, anche in questo caso sceglie di confondere un poco le interpretazioni richiamando la fattispecie del «regolamento aziendale che configuri l’adempimento di un obbligo negoziale». A cosa si riferisce? Senza dubbio a tutti quei regolamenti che seguono la sottoscrizione di un accordo dedicato al welfare aziendale o di un contratto integrativo che regoli anche il welfare: sono entrambe situazioni assai diffuse. Non servirebbe tuttavia alcuna rassicurazione in questo senso: è lo stesso atto negoziale a rendere assolutamente legittimo un regolamento di questo genere (che, tra l’altro, in caso di piani molto complessi è anche inevitabile). Tale interpretazione è quindi limitata e limitativa: certamente sono idonei ad attivare l’integrale deducibilità del piano di welfare anche i regolamenti aziendali unilaterali (e non potrebbe essere altrimenti) che si conformino come atti genuini, in tutto e per tutto da ricomprendersi nei contratti di lavoro dei dipendenti ai quali si applicano (per questo “obbligatori”) e non costruiti soltanto per godere elusivamente dei vantaggi fiscali. Una prova, non certo l’unica, di questa furbesca finalità potrebbe essere la continua variazione del regolamento per “inseguire” le novità fiscali o adattare gli obblighi contrattuali alle esigenze di bilancio dell’impresa.

 

 

3. Momento di percezione del benefit erogato mediante voucher (pag. 40)

 

Particolarmente impattante sulla pratica dei piani di welfare è il chiarimento operato dalla Agenzia in merito al momento di percezione del benefit allorquando il voucher mediante il quale si concretizza abbia una scadenza differente tanto da quella dettata dall’eventuale contratto collettivo che lo abbia disposto (si considerino, ad esempio, ancora una volta, i flexible benefits del CCNL Metalmeccanico), quanto da quella del piano di welfare dentro al quale è inserito, che, infine, dagli estremi dell’anno fiscale, comunque rilevante per la rendicontazione a bilancio del piano e, ancor più, per la verifica del non superamento delle soglie massime di esenzione (molto stringente nel caso dei 258,23 euro regolati dal comma 3 dell’articolo 51 del TUIR).

 

In sintesi, nella circolare si chiarisce che ciò che rileva è la data nella quale il voucher è scelto/ricevuto, non quella nella quale è speso. L’Agenzia ha chiarito un dilemma ricorrente tra gli operatori, in particolare quelli che gestiscono piani di welfare derivanti da obblighi contrattuali nazionali, precisando che «in base al principio di cassa, che presiede la determinazione del reddito di lavoro dipendente, la retribuzione deve essere imputata in base al momento di effettiva percezione della stessa da parte del lavoratore». Il momento di percezione non si ha quando si gode il servizio sotteso al voucher, bensì quando il benefit «esce dalla sfera patrimoniale dell’erogante per entrare in quella del dipendente». Di conseguenza, la rilevanza reddituale del voucher si ha al momento della consegna al lavoratore (o della sua scelta tramite piattaforma), a prescindere che il servizio venga fruito in un momento successivo. Quindi i voucher messi a disposizione del lavoratore nel corso dell’anno X, a questo stesso anno vanno imputati (anche in considerazione agli obblighi contrattuali, non solo per quanto concerne gli aspetti fiscali), anche qualora, in coerenza con la scadenza del voucher stesso, solitamente semestrale o annuale, siano effettivamente goduti nell’anno X+1.

 

 

4. La stretta sui c.d. zainetti sanitari (pag. 42)

 

Il direttore della Agenzia, firmatario della circolare, ha colto l’occasione del maxi-chiarimento per risolvere, per quanto solo parzialmente, un dilemma da tempo ricorrente nel dialogo tra la stessa Agenzia, gli operatori del welfare e le aziende. Si tratta dei dubbi sulla legittimità dei c.d. zainetti sanitari, ossia quelle casse sanitarie nelle quali esiste, per ciascun iscritto/dipendente, «una stretta correlazione fra quanto percepito dalla cassa a titolo di contribuzione ed il valore della prestazione resa nei confronti del lavoratore, o dei suoi familiari e conviventi, al punto che la prestazione sanitaria – sotto forma di prestazione diretta ovvero di rimborso della spesa – ove erogata, non possa comunque mai eccedere, in termini di valore, il contributo versato dal dipendente o dal suo datore di lavoro». In questi casi, secondo l’Agenzia, venendo meno qualsiasi intento (e quindi funzionamento) mutualistico, indipendentemente dall’iscrizione della Cassa che così operi all’Anagrafe dei fondi sanitari integrativi, il lavoratore non dovrebbe beneficiare del vantaggio fiscale disposto dell’articolo 51, comma 2, lettera a) del TUIR, destinato appunto alle sole casse aventi finalità mutualistica, ma della sola detrazione prevista per le spese sanitarie a carico.

 

Il dilemma, tuttavia, come anticipato, è risolto solo parzialmente. Interpretando senza forzatura, per quanto molto letteralmente, il passaggio citato, parrebbe infatti che le cause delle «perplessità» (parola tra l’altro ambigua, poiché non configura una posizione/divieto netta), siano innanzitutto (1) la «stretta correlazione» tra contribuzione e prestazione e (2) l’impossibilità della prestazione di «eccedere» il valore del contributo. Sono queste, effettivamente, caratteristiche identificative delle soluzioni mutualistiche. Orbene, qualora le casse sanitarie aziendali attenzionate dalla Agenzia superassero gli elencati ostacoli e, quindi, evitassero una «stretta» correlazione tra contribuzione e prestazione, di conseguenza permettendo il riconoscimento di prestazioni/rimborso di valore più elevato del contributo versato, verrebbero a cadere le «perplessità» della stessa Agenzia. Il nodo, quindi, è ancor più problematicizzato piuttosto che risolto: già soltanto l’inserimento tra le prestazioni offerte da queste casse della copertura di grandi e costosi interventi, per quanto rari, potrebbe infatti, di per sé, configurare il superamento dei vincoli posti dalla Agenzia, rendendo assolutamente legittime queste forme di assistenza sanitaria.

 

Accanto alle precisazioni in punta di diritto sono opportune (e forse ancor più fondate e contestualizzate) alcune considerazioni anche in merito ai meriti della pratica descritta. Si tratta, infatti, di una particolare forma di assistenza sanitaria integrativa che se da una parte non è perfettamente coincidente con il dettato normativo, in punta di diritto, dall’altra è assolutamente coerente con la ratio degli interventi recenti in materia di welfare aziendale: le prestazioni previste sono indubbiamente sociali, quindi possedenti la caratteristica profonda che ne giustifica il trattamento fiscale e contributivo di favore; inoltre sono effettivamente collettive, ovvero rivolte a popolazioni aziendali eterogenee e non necessariamente “ricche”; infine, quando proposte, sono soluzioni molto apprezzate, proprio per la loro utilità sociale e la loro funzione effettivamente integrativa tanto del welfare pubblico, quanto dei nomenclatori delle cassa di assistenza sanitaria integrativa regolate dai contratti collettivi nazionali.

Appare in definitiva ragionevole adeguare le norme alla evoluzione degli strumenti di welfare aziendale più capaci di leggere il cambiamento sociodemografico piuttosto che obbligare questi stessi strumenti ad adempiere pedissequamente prescrizioni normative figlie del Novecento industriale e assistenziale più che dell’epoca del 4.0.

 

 

5. La destinazione del premio alla previdenza complementare e alla assistenza sanitaria integrative: contributo di solidarietà sì o no? (pagg. 16 e 19)

 

L’Agenzia approfitta della circolare per spiegare nel dettaglio le novità contenute nella Legge di Bilancio 2017 in forza delle quali i contributi alla previdenza complementare, se versati in sostituzione del premio di risultato, possono, essere esclusi dalla formazione del reddito complessivo del lavoratore non entro il “solito” limite di deducibilità di 5.164,57 euro, bensì per un importo di 8.164,57 euro, ovvero la tradizionale soglia di esenzione incrementata dell’intero valore (potenziale) del premio, che, se destinato a questo fine, non genera l’inclusione nel reddito da lavoro del delta tra il contributo versato e il limite di deducibilità. Situazione, quest’ultima, che invece continua a generarsi per ogni tipologia di versamento aggiuntivo diversa dalla welfarizzazione del PdR.

Anche l’assistenza sanitaria integrativa è assoggettata al medesimo trattamento: in questo caso il limite di deducibilità 3.615,20 euro è innalzato a 6.615,20 euro.

 

I passaggi dedicati dalla Agenzia a questi temi conferma quella che già da oltre un anno si è affermata come la lettura prevalente delle novità della Legge di Bilancio 2017. Nel ribadire, però, concetti già chiari, non affronta un nodo interpretativo sul quale si misurano gli addetti ai lavori, relativo al contributo di solidarietà del 10 per cento su tutte le somme destinate a realizzare le finalità assistenziali e di previdenza pensionistica complementare previsto dall’articolo 9-bis del decreto-legge 29 marzo 1991, n. 103, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° giugno 1991, n. 166. In particolare, non è pacifico l’assoggettamento dei versamenti alla previdenza complementare e alla assistenza sanitaria integrativa derivanti dalla destinazione del premio di risultato al contributo di solidarietà regolato nel 1991: l’esenzione dall’imposta sostitutiva con aliquota 10% prevista per il premio di risultato e dovuta in tutti i casi di c.d. welfarizzazione determina (o può intendersi determinare) anche il mancato assoggettamento al contributo di solidarietà?

 

Una risposta affermativa a tale quesito può certamente apparire logica, coerente con la ratio degli interventi in materia di welfare aziendale degli ultimi tre anni, ma non per questo fondata giuridicamente. Ad oggi, le pratiche degli operatori sono diverse, coesistono entrambe le possibilità: quelli che comunque versano la “tassa” (come viene volgarmente definita) all’INPS e quelli che, interpretando concessivamente l’esenzione dall’imposta sostitutiva applicata al premio, al contrario, non la versano. Si badi bene, comunque, che tale difformità si osserva solo nel caso di welfarizzazione del premio di produttività, non nei casi di welfare c.d. “on top”, certamente soggetti al contributo di solidarietà allorquando il lavoratore usi il proprio credito welfare per alimentare la posizione previdenziale complementare o per ampliare le prestazioni sanitarie erogate da enti o casse aventi finalità assistenziale.

 

 

6. Qualche chiarimento sul “temuto” comma 4 dell’articolo 51 del TUIR: come procedere con il rimborso al dipendente degli interessi passivi del mutuo (pag. 13)

 

La Legge di Bilancio 2017 ha chiarito che le somme e i valori di cui al comma 4 dell’art. 51 del TUIR possono essere erogati in sostituzione del premio di risultato e concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente «secondo le regole ivi previste». Questo inciso permette di escludere l’assoggettamento a tassazione dei benefit elencati in questo comma (auto aziendale, prestiti da parte del datore di lavoro, alloggio) in base al loro valore c.d. normale. Non solo: con questo intervento, dal 1° gennaio 2017 l’intero articolo 51 del TUIR, eccetto che per quanto concerne il primo comma (che è di principio) e quelli successivi al quarto, dedicati ad altro tema (le indennità), può essere oggetto di welfarizzazione del premio di risultato detassato.

Certamente i contenuti del comma 4 non sono popolari quanto quelli dei commi 2 e 3, oltre ad essere soggetti ad un trattamento fiscale e contributivo di minore favore. In particolare, nonostante la loro diffusione sotto forma di c.d. fringe benefit per i dipendenti di livello più elevato (tanto sotto il profilo dell’inquadramento, quanto sotto quello economico), risultano poco utili nella strutturazione di piani di welfare collettivi, proprio in ragione del loro costo e della loro esclusività, le possibilità di conversione del premio in auto aziendale o in alloggio. Ugualmente, assolutamente residuale è quanto disposto in materia di concessione gratuita di viaggi ai dipendenti del settore ferroviario.

 

Decisamente più interessante per aziende e dipendenti e, di conseguenza, per i c.d. provider di welfare aziendale sono le disposizioni relative alla concessione di prestiti. In molti piani di welfare attivi nelle imprese questo comma è declinato nella opzione di “rimborso degli interessi passivi sul mutuo” (e talvolta anche sui prestiti personali). È questa la moderna formula di una soluzione invero piuttosto risalente e diffusa anche nella micro e piccola impresa italiana, nella quale non è raro vedere l’imprenditore aiutare i suoi dipendenti nel fare fronte a spese impreviste o a investimenti ingenti (spese sanitarie e acconto per la prima casa su tutte). Non a caso, il trattamento fiscale di favore previsto nel comma 4 prevede sia il pagamento diretto da parte dell’azienda alla banca, che l’accredito sul conto corrente del dipendente di un valore pari alle spese sostenute dal dipendente stesso, purché, chiarisce l’Agenzia, si realizzi «un collegamento immediato e univoco tra l’erogazione aziendale e il pagamento degli interessi di mutuo». Il comma 4, lettera b) dell’articolo 51 del TUIR prevede che tale somma non sia da considerarsi per intero reddito da lavoro (secondo il principio di cui al primo comma, di cui questo comma è, appunto, eccezione), bensì concorrerà alla formazione del reddito il solo 50 per cento dell’ammontare risultante dalla differenza tra gli interessi calcolati al tasso ufficiale di sconto vigente al 31 dicembre di ciascun anno (ovvero il tasso al quale la Banca Centrale concede i prestiti alle banche) e gli interessi rimasti a carico del dipendente calcolati al tasso applicato dalla banca. Questo meccanismo interviene anche nel caso di conversione del premio di risultato, poiché si applicano le regole «ivi previste», con la sola variante che la differenza tra gli interessi al tasso ufficiale di riferimento (che è quello di sconto) e gli interessi rimasti al carico del dipendente deve essere al netto del contributo erogato dall’azienda in sostituzione del premio sostituito. La circolare 5/E, per agevolare la comprensione di questo meccanismo in effetti complesso, riporta direttamente nel testo un esempio numerico già svolto nei calcoli.

 

 

7. L’insieme dei lavoratori che welfarizzano il premio è una «categoria» (pag. 42)

 

Stringato, ma significativo, il paragrafo della circolare dedicato a «Benefit erogati a categorie di dipendenti». Alle oramai consolidate posizioni della Agenzia relativamente alla definizione di «categoria di dipendenti», sinteticamente riportate anche in questo nuovo documento, segue, presentata come conseguenze logica dei chiarimenti forniti negli anni, la valorizzazione dell’insieme di lavoratori che convertono, in tutto o in parte, il premio di risultato in welfare come «categoria di dipendenti».

Invero la consequenzialità del ragionamento non è così manifesta. È però facile prevedere che non vi saranno rimostranze a riguardo, poiché questa interpretazione sancisce la legittimità dei piani che prevedono l’assegnazione di “quantità” di welfare aggiuntivo rispetto al valore del premio ai lavoratori che hanno welfarizzato quanto loro dovuto. Tale pratica è, in effetti, virtuosa, tanto sotto il profilo negoziale, quanto sotto quello economico: il  datore di lavoro, per incoraggiare la conversione dei premi (indubbiamente più vantaggiosa per il bilancio aziendale, oltre che per il clima e, in taluni casi, per la stessa produttività) condivide con i propri dipendenti che hanno scelto il welfare parte del proprio risparmio contributivo, che diventa, appunto, cifra aggiuntiva al premio di risultato; quindi valore “on top”, per questo bisognoso di una individuazione “sicura” di categoria di dipendenti. Sicurezza che ora, almeno fino all’accadere di futuri contenziosi tributari sul punto, proviene dalla stessa Agenzia delle Entrate.

 

 

8. Quel che nella circolare non c’è

 

Pur essendo un intervento molto corposo, sono diversi i problemi evidenziati dagli addetti ai lavori in questi anni (dopo l’emanazione della circolare 28/E del 2016) e non trattati nelle quarantacinque pagine del nuovo documento. Non avrebbe senso elencarli tutti in questa sede. È tuttavia opportuno citare quantomeno gli argomenti principali di cui ci si aspettava una trattazione in circolare.

 

Nel corso degli anni 2016 e 2017 sono circolati diversi interpelli delle direzioni regionali dell’Agenzia (il riferimento è in particolare alla Lombardia) che, a detta di molti osservatori, hanno superato, in termini di ammissibilità, alcune linee guida dettate dalla sede Centrale. In particolare hanno destato più di qualche perplessità i pronunciamenti in merito alla legittimità dei piani di welfare rivolti alla categoria “amministratori di società” (che non sono dipendenti, bensì collaboratori coordinati e continuativi, pur avendo un reddito assimilato a quello di lavoro dipendente) e alla possibilità, anche in contesti di erogazioni “on top”, di prevedere trattamenti economici diversi all’interno della stessa categoria in forza di indici di produttività/efficienza tarati sul singolo dipendente.

Nel primo caso, i dubbi attengono alla interpretazione della parola «dipendenti» contenuta negli articoli del TUIR dedicati ai benefici di utilità sociale; nel secondo caso non appare convincente la deriva del welfare aziendale verso logiche prettamente premiali (e quindi da ricomprendersi nel reddito da lavoro). Su entrambi i punti l’Agenzia non si espressa, preferendo ripercorrere minuziosamente le novità normative, piuttosto che addentrarsi nella analisi di casistiche particolari che avrebbero certamente complicato (a ampliato) la circolare. Vero è anche, però, che nei casi di specie non si sarebbe trattato di un approfondimento casuale, bensì della legittimazione o correzione di quanto già scritto da una direzione regionale della stessa Agenzia.

Diversi e non connessi ad alcun pronunciamento della Amministrazione sono invece le problematiche attinenti alla necessità di carico fiscale dei familiari interessati dalle disposizioni di cui alle lettere d-bis), f), f-bis) e f-ter) del secondo comma dell’articolo 51 e al trattamento dei residui dei piani di welfare “on top”.

 

Sul primo punto ancora si registrano interpretazioni contrastanti che l’Agenzia avrebbe agilmente potuto uniformare chiarendo la non necessità di carico fiscale del familiare che gode di servizi di welfare nella dichiarazione dei redditi del dipendente dell’azienda che ha attivato i servizi usufruiti. Così non fosse risulterebbero piuttosto vuote di conseguenze reali le disposizioni, in particolare, della lettera f-ter), essendo i familiari anziani, nella maggior parte dei casi, soggetti fiscalmente autonomi, garantiti dal proprio assegno pensionistico.

 

A riguardo del secondo tema, se da una parte è pacifica la monetizzabilità con applicazione dell’aliquota sostitutiva del 10 per cento delle somme di welfare residue derivanti dalla conversione del premio di risultato (che è del lavoratore e in nessun modo può rientrare nelle disponibilità dell’azienda), dall’altro non è chiara la legittimità della diffusa prassi di “portare a nuovo anno” (ossia ricomprenderli nell’eventuale credito welfare dell’anno successivo) i residui di piani di welfare on top. È pacifica la perdita di questi valori, così come la destinazione, in silenzio-assenso esplicitato nell’accordo/regolamento del piano, a forme previdenziali e assistenziali individuali o collettive; non è altrettanto chiara la linearità della soluzione prospettata, che l’Agenzia poteva smentire o confermare senza bisogno di complesse argomentazioni giuridiche.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

@EMassagli

 

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Le novità (e le mancanze) della Circolare 5/E sul welfare aziendale