Nei giorni scorsi le cronache locali hanno dato molto rilievo alla conclusione del Congresso della Camera confederale del Lavoro di Bologna (sicuramente una delle più importanti strutture territoriali della Cgil, la prima come numero degli iscritti). Durante le giornate del dibattito si era manifestato il dissenso che contrappone la Fiom (che a Bologna e nella Regione non è solo molto forte e “in cordata” con il vertice nazionale, ma che ha goduto anche delle arrendevoli comprensioni delle Unioni degli industriali) a Susanna Camusso: un dissenso antico che ora ha per oggetto, come ultimo casus belli in ordine di tempo il Testo unico sulla rappresentanza.
Nelle conclusioni, il segretario generale uscente, Danilo Gruppi, dopo la votazione della risoluzione finale, degli emendamenti e di alcuni ordini del giorno su svariati temi, ha ritenuto che non vi fossero più le condizioni per confermare la propria disponibilità alla rielezione, nonostante che, apparentemente, la sua posizione avesse ancora la maggioranza tra i delegati. Così il Congresso è terminato con la elezione del Comitato direttivo, il quale non ha potuto che prendere atto della situazione e rimandare ad un altro momento la nomina degli organi esecutivi.
Nel motivare questo suo orientamento, Gruppi ha svolto delle considerazioni pesanti evocando processi di inquinamento dell’antipolitica anche all’interno del sindacato. Ovviamente, un evento siffatto – che non ha solo un rilevo locale – ha suscitato interesse e scalpore ed ha portato ad interrogarsi su quanto stia avvenendo all’interno della più antica ed importante organizzazione sindacale del Paese.
Il fatto nuovo emerso nell’assise bolognese è stato il venire allo scoperto di un’area di malessere e di dissenso che va oltre la Fiom. In sostanza, i metalmeccanici – fieri della loro diversità, fatta valere in tutti i modi e in ogni circostanza – non si sono trovati in una posizione di isolamento (come era presumibile attendersi), ma hanno innescato processi di opposizione trasversale anche in altre categorie, facendo leva su temi per loro secondari, magari sostenuti come corollario della linea generale. La segreteria uscente della Camera del Lavoro è stata criticata per tanti motivi: ad esempio, per aver cercato e realizzato l’unità d’azione con le altre confederazioni, per aver tenuto una condotta ritenuta troppo morbida nel referendum cittadino sulla scuola d’infanzia e in quello nazionale sull’acqua “bene pubblico” (lo statalismo è diventato l’ultima trincea del radicalismo di sinistra).
In sostanza, in un’organizzazione di solide tradizioni come la Camera del Lavoro di quella che fu la “capitale rossa”, è esplosa una delle caratteristiche che hanno contraddistinto la Cgil, soprattutto sotto le direzioni di Sergio Cofferati e di Guglielmo Epifani: essere un soggetto politico, punto di riferimento di tutti i movimenti, prima ancora che un sindacato. Va riconosciuto a Susanna Camusso di aver cercato di contrastare questa deriva. Con la sua segreteria è ripreso non solo un rapporto con Cisl e Uil, ma anche con la Confindustria e le altre controparti. Non a caso è stato possibile affrontare e risolvere le questioni rimaste aperte per anni con le gestioni precedenti. A partire dall’accordo su rappresentanza e rappresentatività sindacale che racchiude in sé anche le regole per risolvere la questione cruciale della negoziazione, dell’approvazione e dell’applicazione degli accordi a livello nazionale e locale nonché della costituzione e del funzionamento degli organismi unitari.
Questa problematica – sicuramente cruciale – è vittima di un crudele destino. Chi scrive è convinto, infatti, che, in Italia, le relazioni industriali funzionino benissimo. La gestione del Protocollo del 1993, con i successivi aggiustamenti, ha praticamente ricondotto entro limiti assolutamente fisiologici la conflittualità sindacale a fini contrattuali. Da allora, nella gran parte delle categorie, i rinnovi contrattuali nazionali avvengono alle scadenze e senza scioperi (è stato così anche durante la crisi); a livello aziendale le imprese e i sindacati dialogano con spirito di grande collaborazione anche nei momenti più difficili (ovviamente laddove vi siano comportamenti corretti e di reciproco rispetto).
Esiste una sola area in cui tutto ciò non succede: nel settore dei metalmeccanici. E a determinare questa anomalia non vi sono problemi oggettivi, ma soltanto una banale circostanza di potere: si è impadronita della Fiom (l’organizzazione di Bruno Buozzi, di Agostino Novella, di Luciano Lama, di Bruno Trentin) un setta di fanatici che non ha alcun interesse a svolgere una normale attività sindacale, ma persegue unicamente propri disegni di carattere politico. Va da sé che assistere a crisi ricorrenti nei rapporti tra i sindacati e le controparti in un settore tanto significativo (anche per quello che evoca nell’immaginario collettivo, fagocitato da media spesso irresponsabili) ha creato e crea problemi di non poco conto. Anche nel campo delle relazioni industriali i “buoni pastori” si mettono alla ricerca della pecorella smarrita (nel nostro caso si tratta di lanosi caproni trinariciuti), abbandonando a se stesso il resto del gregge. Così, da anni si stipulano accordi con l’obiettivo di ricondurre all’ovile la Fiom; ma è tutto inutile perché questa organizzazione non ha assolutamente intenzione di tornarci. In pratica, non accetta di essere messa in minoranza e di dover sottoscrivere un contratto che non l’ha avuta come protagonista. La principale critica di merito (quelle di metodo sono tanto strumentali da apparire ridicole) che Maurizio Landini rivolge al Testo unico riguarda, appunto, la blanda procedura sanzionatoria a cui sarebbe sottoposta l’organizzazione che violi le regole previste. Da anni, le relazioni industriali vanno alla ricerca di un sistema che sia accettato anche dalla Fiom. Ma si tratta di un gioco dell’oca destinato a durare all’infinito, perché si torna sempre alla casella di partenza.
Anziché andare alla ricerca di una soluzione introvabile (come l’albero di Bertoldo) basterebbe un provvedimento politico di quelli che avrebbe adottato, in circostanze analoghe, la segreteria della Cgil dei bei tempi: il commissariamento della Fiom. Purtroppo, la vicenda di Bologna è lì a dimostrare che la pestilenza del radicalismo di sinistra e della follia senza metodo può diffondersi quando non viene fermata in tempo. E che questo sia il pericolo che corre la Cgil non lo sosteniamo solo noi, osservatori prevenuti perché profondamente delusi. È sufficiente ripercorrere ciò che ha dichiarato Danilo Gruppi, durante una conferenza stampa a commento della sua vicenda. Abbiamo davanti il rischio di una catastrofe – ha affermato l’ex segretario secondo quanto riportato dalla stampa locale – Il rischio è che la Cgil si neutralizzi da sola in una divisione interna dai tratti autoreferenziali.
C’è un arroccamento identitario che sconfina con l’autismo e nel quale c’è una forte componente di fondamentalismo. Quello che impedisce – ha proseguito Gruppi – «di trovare o addirittura cercare un punto di contatto con le posizioni altrui e che trasforma la battaglia delle idee in una battaglia di principi». I destinatari della requisitoria non sono i metalmeccanici (con i quali il dissenso era scontato), ma la fronda interna a cui viene rimproverata una irrazionalità politica, una cultura grillina, destruens, che coglie l’amarezza del momento senza però costruire nulla. Il sindacato non può mai permettersi di rovesciare il tavolo. Che cosa d’altro aggiungere? Ipse dixit.
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
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Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Le ombre lunghe del radicalismo di sinistra sul Congresso della Cgil