Un brusco risveglio dal martellante storytelling de “la svolta buona”. Dai fulminanti annunci di un cambiamento fatto a colpi di tweet. Tanto incisivi nella comunicazione di superficie, nella disinvolta stagione del “post-truth”, quanto incapaci di incidere in profondità sulla vita delle persone. Se ne deve essere accorto anche Matteo Renzi, almeno per un istante di verità, nudo di fronte allo specchio del Paese, una volta compreso l’andamento del voto referendario.
Tante e troppo sfacciate le promesse, per poter essere poi mantenute. Da ultima, in piena ansia da Renxit, quella di una decontribuzione totale per i giovani del Sud. Senza però passare per la legge di stabilità. Un colpo ad effetto, da consumato prestigiatore, col risultato di “distrarre” per scopi elettorali buona parte dei fondi europei destinati a quegli interventi strutturali che soli consentono nuova e duratura occupazione.
Molte sono le spiegazioni del no a un giovane leader che, solo pochi mesi fa, pareva senza possibili battute d’arresto sul suo luminoso cammino. Chi si occupa dei complessi temi del lavoro già sapeva, tuttavia, che prima o poi la narrazione della corazzata di Matteo Renzi sarebbe andata a sbattere contro lo scoglio della realtà. Quella di un Paese ancora lacerato nel profondo dalla grande crisi iniziata nel 2007. Una crisi che, in termini di posti di lavoro e crollo dei volumi di produzione, ha lasciato sul terreno un cumulo di macerie. Né più né meno di quanto avviene dopo una guerra che, nel caso dell’economia italiana, ancora non sappiamo se conclusa e su cui ben poco ha potuto una crescita del PIL a colpi di zero virgola.
Di certo non ha contribuito a invertire la rotta la Rivoluzione copernicana del lavoro promessa da Matteo Renzi col Jobs Act. Una legge costruita a immagine e somiglianza di un piccolo mondo antico in via di estinzione, quello delle logiche di subordinazione e comando padronale, proprie del Novecento industriale, oggi più libere che in passato. Ma certamente il Jobs Act non ha saputo interpretare il lavoro che cambia e tanto meno leggere la nuova geografia del lavoro. A partire dalla vera rivoluzione in corso nel tessuto produttivo del Paese: quella “Industria 4.0” che ci vede oggi in grave ritardo rispetto a Germania e Stati Uniti e che le parti sociali, col rinnovo unitario del ccnl dei metalmeccanici a pochi giorni dal referendum, hanno dimostrato di saper comprendere gelosi della propria autonomia dalla politica.
Molti hanno dovuto attendere i fatti per rendersi conto della debolezza di una riforma incentrata unicamente sul superamento, in sé positivo, dell’articolo 18. Terminate tuttavia le ingenti risorse messe in campo con la decontribuzione dello scorso anno si scopre, con ingenua sorpresa, il buco nel bilancio dell’INPS e che l’occupazione ha smesso di correre. Posti di lavoro drogati dagli incentivi, prevalentemente stabilizzazioni di precedenti contratti precari, e che tuttavia nulla di stabile hanno se è vero che risultano ora sufficienti poche mensilità per liquidare un lavoratore senza rischio di contenzioso. Circostanza questa comprensibile, nella nuova economia, se non fosse che a due anni dalla attuazione del Jobs Act mancano ancora le moderne tutele del lavoro annunciate da Renzi. Garanzia Giovani è stato un vero e proprio flop mentre per le politiche attive e di ricollocazione di quanti hanno perso un lavoro sono stati stanziati solo 18 milioni. Praticamente 6 euro per ognuno dei 3 milioni di disoccupati. E che dire poi della riforma delle politiche attive, il decreto legislativo n. 150/2015, scritto dando per scontata una competenza nazionale esclusiva in materia che ora, all’esito del referendum, non c’è stroncando così sul nascere ruolo e competenze della Agenzia nazionale del lavoro?
È proprio qui che si comprende l’illusione della riforma costituzionale promossa da Renzi, che sulle politiche attive del lavoro e di ricollocazione ha giocato d’azzardo con una centralizzazione di poteri in una nuova agenzia nazionale che, in due anni di Jobs Act, non ha tuttavia mosso alcun passo e che pochi ne farà ora all’esito della riforma. La storia insegna che le politiche del lavoro si giocano nei mercati locali del lavoro, che sono oltre 600 secondo ISTAT, mentre sono i più recenti studi economici sulla nuova geografia del lavoro a insegnarci che, nella catena globale di produzione del valore, perdono peso sia il livello nazionale che quello aziendale, mentre acquistano nuova forza vitale i nodi territoriali di una economia che si sviluppa e connette in termini reticolari. È da qui che si deve ora ripartire se si vuole davvero rimettere al centro il lavoro e il rilancio del Paese: dalle persone e dai territori e da politiche sussidiarie che diano maggiore libertà e responsabilità a quei corpi intermedi che sono l’architrave di una società complessa e che era ingannevole pensare di poter cancellare con la semplice soppressione del CNEL.
Coordinatore scientifico ADAPT
Pubblicato anche su Panorama, 8 dicembre 2016