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Bollettino ADAPT 17 maggio 2021, n. 19
Negli ultimi anni si è parlato spesso di crisi del posto fisso senza però essere in grado di individuare da cosa è stato sostituito. La pandemia ha reso ancor più evidente poi come la stabilità nei sistemi economici contemporanei, e quindi nei mercati del lavoro, sia un concetto che ha perso il valore di un tempo. La forte interconnessione tra sistemi produttivi differenti, la rapidità con cui si evolvono sia le filiere che le preferenze dei consumatori rende più difficile immaginare carriere lineari e senza discontinuità. Questo non senza conseguenze talvolta drammatiche e non senza il rischio che tale fluidità si traduca in un nuovo processo di mercificazione del lavoro. Le transizioni occupazionali sembrano quindi essere la nuova normalità e la sfida per il diritto del lavoro e per i sistemi di relazioni industriali è come gestirle individuando il minimo comun denominatore tra esigenze di flessibilità e di tutela. Ma questo è anche un problema per le imprese che hanno il problema di trattenere i talenti migliori all’interno di un mercato del lavoro in cui i profili più ricercati sono spesso anche quelli più scarsi. Accrescendo così la competizione complice un clima culturale che porta i profili medio-alti ad accettare la logica delle transizioni e non solo a subirla.
All’interno di questo grande insieme di fenomeni sono almeno due gli elementi che risultano più urgenti. Il primo è quello di individuare delle modalità efficaci di incontro tra domanda e offerta di lavoro soprattutto nella fase iniziale delle carriere lavorative. La durata della transizione tra scuola e lavoro in Italia infatti è la più lunga tra i paesi europei, e questo porta spesso ad uno scoraggiamento che si traduce in una comprensibile ritrosia nei confronti delle transizioni stesse. L’investimento in forme di formazione duale è la strada maestra, insieme all’orientamento, per provare a colmare questo gap e gli investimenti contenuti nel PNRR sembrano andare in questa direzione. Ma c’è un tema molto più ampio e complesso che è quello che riguarda la gestione delle transizioni all’interno delle carriere. Transizioni che sono ancora troppo spesso, e per i profili medio-bassi potremmo dire sempre, un problema e mai una opportunità. Il peso della transizione è spesso caricato sulle spalle del singolo a cui viene richiesta una mobilità sul mercato del lavoro che non è in grado, per assimetrie informative ma anche per mancanza di supporti concreti, di attuare. Così tutto ciò che non è un lavoro standard sembra tradursi in un lavoro di serie B, senza tutele e destinato ad essere una parentesi e non il tassello di una variopinta carriera lavorativa.
La pandemia ce l’ha insegnato con centinaia di migliaia di occupati a tempo determinato il cui contratto non è stato rinnovato e che non sono stati tutelati dal blocco dei licenziamenti. Ed è facile immaginare che più fosse breve il contratto meno opportunità di fossero di una conversione a tempo indeterminato. Ma la soluzione non può essere quella di un processo di trasformazione di tutti i rapporti di lavoro non standard in rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Anche perché da un lato non sono una certezza neanche per le imprese considerato che quasi la metà di essi dopo due anni non esiste più (e non certo solo a causa di licenziamenti) e che i lavoratori non possono considerarsi tranquilli anche in questa situazione.
Occorre muoversi invece da un lato nel costruire tutele che siano sempre più connesse alla persona stessa e non al suo status di lavoratore, forme di supporto che riducano i rischi potenziali di transizioni virtuose e sostengano che faticano a trovare uno sbocco. Occorre in sintesi andare verso un vero e proprio diritto alla transizione che può declinarsi in nuove forme di certificazione delle competenze, in assessment periodici delle stesse, nel diritto all’orientamento. Questo contribuirebbe a ridurre i livelli di ingessatura del mercato del lavoro spesso anacronistici perché alimentati da un sistema di tutele costruito sul modello novecentesco. E occorre farlo soprattutto all’interno di quegli ecosistemi territoriali in cui l’insieme degli attori presenti può impegnarsi per costruire un miglior coordinamento nel mercato del lavoro che consenta alle transizioni di funzionare.
Le tecnologie possono sicuramente aiutare in questo attraverso l’implementazione di banche dati (anche coordinandosi con le sempre più diffusi società private) che facciano incontrare domanda e offerta di lavoro e enti formativi che possono aiutare le persone che cercano lavoro a colmare i gap di competenze necessari per farlo. Il PNRR sembra scommettere, da quanto si è appreso finora, sul ruolo dei territori e sulla necessità di patti territoriali per un buon utilizzo delle risorse. Senza questo passaggio il nodo delle politiche attive del lavoro, intorno al quale ruota tutto il tema delle transizioni, non potrà funzionare.
Presidente Fondazione ADAPT
Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro
*pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 12 maggio 2021