Le relazioni industriali non sono più le stesse. La recessione e le politiche di austerity imposte da Bruxelles, hanno impresso un’accelerazione al processo di trasformazione e adattamento incrementale del modello sociale europeo alle nuove frontiere della produzione e del lavoro. A certificarlo, i ricercatori della Fondazione di Dublino, che hanno analizzato l’impatto della crisi economica sulle relazioni di lavoro in Europa (Eurofound, Impact of the crisis on industrial relations and working conditions in Europe, 2014).
Almeno in una prima fase (2008-2010), la reazione dei sistemi di relazioni industriali alla progressiva erosione degli indicatori economici è stata complessivamente positiva. Ciò è valso in particolar modo per i Paesi dotati di un sistema di dialogo sociale consolidato, ove le risposte delle parti sociali allo stato d’incertezza economica sono state più efficaci in ragione della minore inclinazione al conflitto e della familiarità delle forze sociali con le procedure preposte alla gestione delle crisi. In particolare, il rapporto Eurofound registra una generale riduzione delle ore lavorate quale misura di contenimento degli esuberi, attuata sia nella forma del part-time, che attraverso il ricorso ai regimi di riduzione oraria contrattata (cassa integrazione e contratti di solidarietà). In più, il crollo degli straordinari, specie di quelli pagati, ha contribuito ulteriormente alla riduzione dell’orario effettivo di lavoro.
La recessione ha determinato un acceleramento del processo di decentramento della contrattazione collettiva in molti Paesi. Lo spostamento del baricentro negoziale verso le aziende è stato accompagnato da un generale declino della copertura contrattuale, dal ricorso alle deroghe, dalla prassi della disdetta anticipata dei contratti e dal mancato rinnovo degli accordi scaduti. A ciò si aggiunge il dato di una accresciuta complessità gestionale dei negoziati: ai tavoli delle trattative, le parti sono rimaste maggiormente polarizzate sulle rispettive posizioni; a causa della crisi che ha ridotto sensibilmente il margine degli elementi da contrattare, la dinamica dello scambio virtuoso tra rivendicazioni sindacali e esigenze aziendali ha segnato una battuta d’arresto.
La crisi, poi, ha cambiato il volto e la natura stessa del conflitto collettivo. Sono cambiati, in particolare, i luoghi e le forme dello sciopero. Si sciopera per poche ore. Per lo più al sabato e alla domenica, ormai. E spesso le astensioni dal lavoro trovano la loro naturale valvola di sfogo nelle piazze, prima che nelle fabbriche. A dimostrazione che il disagio dei lavoratori assume sempre di più i toni della protesta sociale vera e propria. Ulteriormente, il monopolio del conflitto sindacale è stato parzialmente trasferito dalle associazioni di rappresentanza ai movimenti collettivi di massa. Nei Paesi più colpiti dalla crisi, si è assistito alla nascita di nuovi movimenti sociali che si sono affiancati, se non sostituiti, al tradizionale ruolo di mediazione svolto dal sindacato, come ad esempio il movimento degli Indignados in Spagna, o quello della Generazione Precari in Portogallo. In alcuni casi, le istituzioni di rappresentanza trilaterali deputate al dialogo tra governo e parti sociali sono state aperte alla società civile. Segno tangibile che la lotta per il lavoro non riguarda più solo le fasce dei lavoratori in bilico tra occupazione e precarietà, ma che è oramai diventata la battaglia delle battaglie, e come tale spettante alla società nel complesso, anche senza l’intermediazione dei corpi intermedi.
Il rapporto dà conto anche di una sensibile diminuzione della percentuale della partecipazione dei lavoratori alla formazione, oggi più centrata sulle competenze tecnico-professionali, che su quelle trasversali. A testimonianza che le politiche HR di molte aziende in tempo di crisi sono state orientate dalla logica dello “stretto necessario”, rinunciando ad investire sullo sviluppo del capitale umano e sul miglioramento delle competenze della forza lavoro.
La contrazione dei bilanci ha determinato poi un generale abbassamento degli standard di salute e sicurezza sul lavoro, con conseguenze negative sul benessere psicofisico dei lavoratori, interessati oggi da un aumento allarmante dei livelli di stress, disturbi del comportamento e altri problemi psicosociali potenzialmente dannosi sia per l’andamento dei processi aziendali che per la società nel complesso.
Un altro elemento affiorato è che il crollo dell’economia ha inciso significativamente sulla occupabilità dei lavoratori, ovvero sulla loro possibilità di scelta nel mercato del lavoro. In assenza di alternative, le forme di lavoro c.d. atipico (in particolare part-time e lavoro a termine) si sono diffuse in forma involontaria e si è ridotta la mobilità professionale verticale, così come pure quella orizzontale. Dal punto di vista sociale, la conseguenza estrema di questa situazione è il proliferare in alcuni Stati (in particolare Bulgaria, Cipro e Lettonia) dell’economia informale, con effetti negativi anche sulla contabilità nazionale. Viceversa, in realtà come Grecia, Irlanda, Spagna, Lituania, Lettonia, si sono verificate delle vere e proprie migrazioni all’estero delle fasce di popolazione svantaggiata, in cerca di una occupazione e di uno standard di vita migliore.
Vi è da dire inoltre che la recessione ha prodotto effetti disomogenei sulla forza lavoro e sui diversi settori dell’economia. Se giovani e anziani sono i gruppi di lavoratori maggiormente colpiti, il settore manifatturiero e l’edilizia riportano i cali più significativi. Questo ha prodotto altresì un impatto diverso in termini di intensità sulla forza lavoro maschile e femminile, in ragione del fatto che i settori più colpiti sono stati quelli in cui tradizionalmente si registra una prevalenza della componente maschile.
Il rapporto mette in luce poi che diversi Paesi sono interessati da un calo dell’assenteismo, probabilmente perché la paura di perderlo, aumenta l’attaccamento del dipendente al proprio impiego. Paradossalmente, infatti, la job satisfaction è accresciuta in tutta Europa durante la crisi. Pare proprio che l’effetto negativo della precarietà del lavoro sia stato compensato dalla “soddisfazione di avere ancora un lavoro”, che evidentemente, nell’epoca nella crisi globale e dell’incertezza, si atteggia ad essere il denominatore comune di tutti i lavoratori, a prescindere dalla tipologia di percorso professionale.
Serena Santagata
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@Serena_Santa
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Le relazioni industriali non sono più le stesse. Ecco come la crisi ne ha cambiato il volto