Sarà opportuno attendere che lo schema di decreto attuativo del Jobs act adottato dal Consiglio dei ministri del 24 dicembre acquisti forza di legge e finché non si avrà il testo definitivo in Gazzetta Ufficiale si potranno fare solo valutazioni provvisorie. Tuttavia, alcune considerazioni di merito sono già possibili ,immaginando che il quadro definitivo non sarà molto diverso da quello attuale. Si deve salutare con grande favore la previsione (articolo 12) che le disposizioni processuali della legge Fornero del 2012 non saranno applicate ai futuri licenziamenti. Questa legge aveva introdotto un’ulteriore fase sommaria inutile e anche dannosa, poiché aveva appesantito il processo del lavoro senza alcun significativo beneficio per le parti. Tanto che era riuscita a far convergere nel giudizio negativo tutti i protagonisti: avvocati e magistrati, lavoratori e datori, sindacati e Confindustria. Nessuno ne sentirà la mancanza. Altra novità positiva è la possibilità per il datore di revocare il licenziamento entro i 5 giorni dalla sua impugnazione, senza sanzioni e col solo obbligo di pagare la retribuzione maturata nel periodo precedente la revoca.
Apprezzabile, inoltre, è la previsione di una procedura di conciliazione attivabile dal datore con modalità molto
semplici e senza le procedure previste finora. Positiva, infine, l’estensione della tutela al licenziamento dei dipendenti delle «organizzazioni di tendenza» (partiti politici, sindacati, associazioni culturali e di istruzione, istituzioni religiose). Per tali soggetti in precedenza non era mai possibile la reintegrazione, ora consentita, pur nei limiti del decreto delegato. Era una deroga anacronistica, che opportunamente viene soppressa. Non poche perplessità suscita, invece, l’eliminazione di un giudizio di proporzionalità fra il fatto contestato e la sanzione del licenziamento. Infatti, a meno che non venga imputato un fatto materialmente inesistente, al datore non può essere imposta la reintegrazione, ma solo il pagamento di un’indennità, di due mensilità di stipendio per ogni anno di servizio (comunque con il massimo di 24 mensilità). Ciò significa che anche in presenza di un’infrazione lieve (ritardo sul lavoro, disobbedienza a un ordine di servizio) allorché il licenziamento è sproporzionato rispetto alla gravità del fatto e viene inflitto in luogo delle sanzioni “conservative” (ammonimento, multa, sospensione) nessuna conseguenza vi sarà circa la ricostituzione del rapporto di lavoro. La novità pare significativa perché non solo riduce grandemente la valutazione riequilibratrice del giudice ma, soprattutto, rende inutili i codici disciplinari contenuti nei contratti collettivi, nei quali è prevista una stretta relazione fra gravità del comportamento e sanzione corrispondente. Almeno da questo punto di vista, pare difficile parlare di tutela crescente.
Al momento, tuttavia, paiono eccessivi i timori di incostituzionalità, da qualche parte formulati. Più fondati, invece, potrebbero risultare i dubbi sulla compatibilità dell’impostazione “monetizzante” con la normativa europea. L’esperienza e l’effettiva applicazione consentiranno di valutare se la normativa delegata avrà tenuto presente, e in che misura, uno dei postulati fondamentali della legislazione lavoristica: il principio, cioè, per il quale il lavoratore è il contraente più debole nel rapporto di lavoro. Affermazione pacificamente ammessa
da giuristi, sociologi ed economisti e che importanti esponenti del Governo dicono di aver tenuto presente.
Varrà la pena, poi, di esaminare un profilo ancora poco considerato. Si parla molto di flessibilità in entrata e in uscita, cioè all’inizio e alla conclusione del rapporto di lavoro. Ma non si può fare ameno di considerare che l’accentuazione della facoltà del datore di por fine al rapporto si riverbera anche sullo svolgimento del lavoro, sul durante. E noto, infatti, che quanto più il lavoratore è esposto alla possibilità di essere licenziato, tanto più si trova in una condizione di inferiorità (non solo psicologica) che lo porterà a non opporre resistenza anche di fronte a eventuali decisioni del datore a lui sfavorevoli (assegnazione di mansioni inferiori, richieste eccessive di
lavoro straordinario, ritardi nei pagamenti ecc.). Naturalmente, un giudizio più completo richiede la valutazione complessiva di tutti i decreti delegati che saranno emessi nella fase attuativa. E naturalmente il testo attuale presenta luci ed ombre; a qualcuno piace, ad altri no. Ma di fronte a un nuovo testo di legge ci si deve comunque porre in atteggiamento positivo, riconoscendo ruolo e funzione dei decisori istituzionali (Parlamento e Governo) cioè tenendo ben presente il primato della politica cui spetta decidere quali diritti ampliare e quali comprimere, e quali tutele accordare a essi. A tutti i destinatari, i giudici in primo luogo, spetta fare quanto è possibile perché lalegge funzioni, assicurando la tutela dei diritti riconosciuti a ciascuna parte.
Dopo il testo definitivo occorrerà monitorare quel che l’esperienza concreta farà emergere. Vale sempre la “prova del cucchiaio”: per sapere se il budino è buono non basta guardarne colore o forma, ma occorre mangiarlo. È interesse di tutti che sia gustoso e che non risulti indigesto.
Piero Martello
Presidente del Tribunale del lavoro di Milano
* Il presente articolo è pubblicato in Il Sole 24 ore del 5 gennaio 2015.