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Le politiche sociali di Lega e 5 Stelle ruotano da tempo attorno a due provvedimenti simbolo: superamento della legge Fornero e reddito di cittadinanza. Si tratta di misure controverse, nel dibattito politico, ma molto popolari perché toccano problemi particolarmente sentiti dalle persone: la fatica del lavoro con l’avanzare della età, da un lato; l’assenza di lavoro, dall’altro lato. Due temi apparentemente connessi, dunque. Accompagnare alla pensione chi ha già dato il suo contributo alla società e includere chi ne è ancora escluso. In verità non esiste una prova che l’uscita anticipata di circa 400mila lavoratori possa creare altrettanti posti di lavoro. Le evidenze empiriche portano anzi a dire che così non sarà. Non è questo però il punto centrale su cui soffermare la nostra attenzione e non solo perché si tratta di tecnicismi e sofisticate analisi economiche che sfuggono ai più. Ci fa riflettete, piuttosto, la percezione del lavoro che sta dietro queste proposte. Un lavoro visto come pena, fatica. Una metà che per molti resta un sogno e che, una volta raggiunta, sembra diventare una sorta di condanna. Come se il lavoro non fosse un terreno privilegiato per esprimere e ritrovare se stessi, la propria identità e il proprio ruolo nella società e nella relazione con gli altri.
È in questa prospettiva che può allora essere letto il reddito di cittadinanza. Non un sussidio a prescindere. Ma un sostegno temporaneo in attesa di trovare un buon lavoro. Questo è del resto l’intenzione, che tuttavia mostra più di una crepa quando si affida agli uffici pubblici del collocamento il compito di trasformare una misura passiva in un percorso di inclusione sociale. L’iter annunciato sembra infatti prevedere un primo trimestre del 2019 nel quale si metterà mano ai Centri per l’impiego (CPI) per poi avviare, a fronte dei CPI riformati, l’erogazione del reddito di cittadinanza a partire da aprile tramite essi.
La situazione e l’inefficienza dei Centri per l’impiego italiani è nota a tutti e potrebbe ora complicarsi definitivamente assegnando loro il compito di erogare e controllare il reddito di inclusione. Parliamo di una platea di circa 6 milioni di persone. Questo significa che ciascuno degli 8mila addetti degli uffici del collocamento si vedrebbe affidate 750 persone, per le quali dovrà procedere alla individuazione di tre proposte di lavoro. Una situazione che pare difficilmente sostenibile e che impone un profondo ripensamento della proposta. L’altro dato importante riguarda le competenze dei dipendenti dei CPI con solo il 30% in possesso di una laurea, in un mercato del lavoro che richiede oggi per poter far incontrare domanda e offerta una formazione elevata in grado di comprenderne e gestirne la complessità. Questo fa sì che i servizi offerti siano limitati con solo il 50% dei CPI che svolge accompagnamento al lavoro e orientamento e solo il 54% che svolge servizi di incontro tra domanda e offerta di lavoro, quando dovrebbe essere la normalità. Il tutto conduce al numero che più di tutti ci ricorda le difficoltà dei CPI italiani: solo il 3% dei disoccupati trova lavoro grazie al loro aiuto. Pochi dati ma evidenti che mostrano come senza un completo riassetto dei Centri per l’impiego sarà impossibile l’erogazione del reddito di cittadinanza, se si vuole che sia effettivamente condizionato alla ricerca di lavoro e alla formazione. E come potrà avvenire questo riassetto lo si può intuire da quanto contenuto nella Nota di aggiornamento del DEF nella quali si elencano tre azioni principali. La prima riguarda un nuovo piano di assunzioni di personale qualificato, la seconda è l’unificazione delle banche dati della domanda e dell’offerta di lavoro, la terza è il rinnovamento dei locali e delle infrastrutture dei CPI. Sicuramente azioni importanti ma che, in attesa di un testo della legge che accompagnerà la Legge di Bilancio, sollevano alcune criticità e alcuni limiti.
Sia chiaro, qui non stiamo parlando della buona volontà delle persone che operano presso i centri per l’impiego quanto delle loro competenze e professionalità rispetto alle esigenze di un mercato del lavoro che cambia in continuazione e che ha superato la vecchia funzione del collocamento da posto a posto. Come già diceva Bruno Trentin ad inizio del nuovo secolo, l’epoca del “lavoro astratto”, del lavoro senza qualità è al tramonto. Le imprese oggi cercano mestieri, competenze e professionalità che non passano dai centri per l’impiego e che in larga parte ancora non esistono ma vanno formate da moderne agenzie formative. Anche per questo sarebbe più urgente ripensare alla scuola, alla università, ai fondi interprofessionali per la formazione continua e ai centri di competenza del Piano Calenda di cui sembra essersi persa ogni traccia.
Gli stessi rapporti istituzionali di monitoraggio delle politiche attive mostrano, in ogni caso, come senza un completo ripensamento delle modalità di incontro tra domanda e offerta di lavoro il reddito di cittadinanza finirà per l’essere limitato a un trasferimento passivo di risorse che crea dipendenza e che alimenta piuttosto che risolvere il problema della povertà e della inclusione. Bene un nuovo piano di assunzioni di personale qualificato, ma perché non avvalersi allora della infrastruttura già esistente degli operatori privati autorizzati o accreditati ai servizi al lavoro? Bene anche l’idea di moderne tecnologie, ma non sarà certo un potente software a incrociare una domanda e offerta di lavoro che mai è meccanica e che riguarda persone, attitudini, professionalità, esigenze diverse da caso a caso.
L’elemento fondamentale resta quello qualitativo, più che i meri numeri. Quello dell’ascolto e della effettiva presa incarico delle persone. Perché se il collocamento pubblico ha sin qui fallito è stato non per assenza di risorse o di tecnologia ma per aver trasformato il lavoro e lo stesso disoccupato in una pratica burocratica. Anche a fronte di nuove assunzioni la prima azione necessaria sembra dunque essere quella di riqualificare e aggiornare professionalmente il personale già in essere per renderlo in grado di svolgere quei servizi fondamentali per un sistema di politiche del lavoro che sappia affrontare le sfide del mercato del lavoro contemporaneo. Questo significa competenze interdisciplinari non solo di tipo giuridico, economico e statistico, ma anche sociologico e psicologico per accompagnare persone in difficoltà. Una riqualificazione che non si può certo immaginare in tre mesi di tempo e che impone di accompagnare culturalmente il rilancio nel nostro Paese di una visione positiva e progettuale del lavoro. Qualcosa che vada oltre il contratto e la retribuzione e che si ricolleghi piuttosto a un bisogno insopprimibile della persona nella ricerca del suo significato e del suo ruolo nella società e nelle relazioni con l’altro.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt
Direttore ADAPT University Press
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
*pubblicato anche su Avvenire, 13 ottobre 2018