Le trasformazioni del mercato del lavoro e i rischi per la protezione sociale: alcune evidenze dall’ultimo Rapporto INAPP

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Bollettino ADAPT 15 maggio 2023, n. 18
 
L’attività di ricerca dell’INAPP, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, è rivolta a cogliere da un lato le tendenze evolutive degli scenari economici e sociali e dall’altro ad analizzare i problemi che si pongono per riorganizzare l’architettura sociale in risposta alle nuove esigenze. Anche per il 2022, dunque, il Rapporto INAPP “Lavoro e formazione: l’Italia di fronte alle sfide del futuro” ha inteso fornire un contributo alla costruzione di una base conoscitiva che possa costituire un punto di riferimento per coloro che disegnano e attuano le politiche del lavoro e per tutti coloro che operano nel mondo del lavoro. Tra i temi oggetto di interesse del rapporto vi è stato lo studio dell’evoluzione del mercato del lavoro italiano negli ultimi anni e un’analisi approfondita sul welfare state e sulle sue attuali criticità, nell’ottica di arricchire il dibattito sulle possibili riforme in materia.
 
Il lavoro atipico
 
Un primo aspetto evidenziato nel rapporto riguarda la sempre maggiore diffusione dei rapporti di lavoro atipici (aumento del 34% tra il 2009 e il 2021), ossia di tutte quelle forme di lavoro che si distinguono rispetto al contratto standard, rappresentato dal contratto subordinato a tempo indeterminato full time.
 
Se da un lato ciò ha contribuito a creare maggiore occupazione, con un incremento del 24% di attivazioni di rapporti di lavoro osservati nel periodo 2009-2021, dall’altro questo fenomeno ha avuto un forte impatto sui sistemi di welfare. Cambi di lavoro più frequenti e redditi più volatili hanno infatti spinto i lavoratori atipici a ricorrere più frequentemente ai sussidi di protezione sociale, che tuttavia, allo stato attuale, appaiono progettati sul presupposto di un contratto di lavoro stabile.
 
Pertanto, le indennità corrisposte ai lavoratori assunti con contratto a tempo determinato o part-time, risultano notevolmente più basse rispetto a quelle devolute ai lavoratori standard, a causa dei salari più bassi e di periodi di contribuzione più brevi.
 
In questi termini, secondo quanto evidenziato dai ricercatori INAPP, in linea con quanto indicato a livello europeo e internazionale, è necessaria una evoluzione dei sistemi di protezione sociale di pari passo con i mercati del lavoro, cosicché il modello sociale sia costantemente adeguato alle esigenze economiche e sociali. Gli obiettivi di eguaglianza sostanziale potranno essere raggiunti solo estendendo la copertura assicurativa sociale a tutte le categorie di lavoratori, rafforzando i sistemi di sicurezza sociale, semplificando le procedure amministrative e migliorando l’accesso alle informazioni sui diritti individuali.
 
Il lavoro povero
 
Oltre alla diffusione del lavoro atipico, un’altra questione al centro del focus è quella salariale.

L’indagine sul punto viene condotta utilizzando un indicatore definito In-work-at-risk-of-poverty-rate (IWP), che rappresenta il tasso di lavoro a rischio di povertà, indica la percentuale delle persone sul totale della popolazione, le quali hanno dichiarato di essere occupate, ma la cui famiglia è a rischio povertà. Tale soglia è fissata al 60% del reddito disponibile equivalente mediano nazionale dopo i trasferimenti sociali.
 
Ebbene, partendo dal confronto con gli altri Paesi Europei, in base ai dati forniti da Eurostat, emerge che la condizione in cui versano i lavoratori italiani nell’ultimo decennio è maggiormente critica, con una distanza rispetto all’Unione Europea mediamente di 2,1 punti percentuali.
 
Dall’elaborazione dei dati statistici si deduce poi che il rischio di povertà lavorativa in Italia è più alto rispetto alla media europea con riferimento ai lavoratori che hanno un contratto a tempo indeterminato, che sono giovani (fascia 18-24) e si registra maggiormente negli individui di sesso maschile.
 
Inoltre, se a questo studio viene sovrapposta l’indagine condotta da INAPP Plus, che aggiunge una ripartizione per appartenenza territoriale, per livelli di istruzione e per tipo di impiego, analizzando i dati sulla base del reddito lordo annuale dichiarato, si giunge a delineare che i più colpiti dalla povertà siano i residenti del Mezzogiorno, giovani, in possesso della sola licenza media, impiegati in lavori atipici. Osservando il reddito netto mensile, emerge poi in maniera chiara il c.d. gender pay gap, ossia il differenziale di genere fra uomini e donne, a sfavore di quest’ultime.
 

Una volta analizzata la condizione personale dei lavoratori, il dibattito viene arricchito dal confronto con le condizioni familiari, grazie ad alcuni controlli socio-economici. Sotto questo aspetto, lo studio condotto dimostra che i redditi bassi siano percepiti da famiglie con bassa disponibilità economica di risorse, lavori precari e bassa istruzione. Insomma, vi è un vero e proprio moltiplicatore di disagio economico, contrastabile solo nel caso in cui vi sia in famiglia la condivisione del rischio, svolgendo un’azione di sostegno nei confronti del componente che percepisca una retribuzione bassa. In tutti gli altri casi, la condizione familiare di work poverty riduce le possibilità di consumo e di risparmio, aumentando ulteriormente la fragilità di queste persone. Ciò comporta da parte di costoro una difficoltà di reazione agli imprevisti, a cui consegue la scelta di posticipare le cure mediche e la procreazione, con un evidente impatto sul tasso di natalità.

 
Gli ammortizzatori sociali nella legge di Bilancio 2022

 
Sulla base delle evidenze riportate nei paragrafi precedenti, il Report evidenzia la necessità di una riforma capillare degli ammortizzatori sociali, al fine di ampliare la platea dei beneficiari del sistema attuale e ridurre così il rischio di povertà.
 
In merito alla Nuova assicurazione sociale per l’impiego, con la legge di Bilancio 2022 sono state confermate le modifiche introdotte temporaneamente in periodo Covid. In questi termini, è stato rimosso il requisito di anzianità lavorativa delle 30 giornate negli ultimi 12 mesi, in modo tale che per accedere alla NASpI è necessario unicamente possedere 13 settimane di contributi negli ultimi 4 anni e il meccanismo del décalage, che prevede una riduzione dell’importo mensile del trattamento, si attiva dal 6° mese di fruizione e non più dal 4°, fatta eccezione per i cinquantenni per i quali inizia dall’ottavo mese. È stata così ampliata la platea dei beneficiari, in favore dei lavoratori discontinui e degli operai agricoli a tempo indeterminato, i quali prima potevano richiedere solo la disoccupazione agricola.
 
Anche in merito alla Dis-Coll sono state effettuate modifiche, con la parificazione dell’aliquota contributiva spettante ai lavoratori dipendenti. In questo modo, viene permesso un aumento della durata della prestazione nonché, finalmente, il riconoscimento della contribuzione figurativa.
 
Per quanto gli interventi di integrazione salariale, le riforme sono state influenzate da quanto avvenuto durante il periodo pandemico.

 
Sotto questo aspetto, l’inizio della fase emergenziale ha infatti permesso di individuare le criticità del sistema in maniera chiara: un numero rilevante di settori economici, e dunque diverse tipologie di lavoratori, rimaneva totalmente scoperto da qualsiasi tipo di strumento di integrazione salariale ordinario assistenziale.
 
Superata la fase emergenziale, anche grazie a ciò che la crisi aveva evidenziato e agli strumenti messi in campo tramite la speciale causale emergenziale, è stato riconsiderato l’intero assetto del sistema, con una complessa e organica riforma, determinando una maggiore omogeneizzazione ed estensione del sistema delle integrazioni salariali attraverso l’attuazione di uni specifico principio: quello dell’universalismo differenziato.
 
In sintesi, relativamente alla disciplina della CIGO, è stato esteso il campo di applicazione soggettivo, che comprende ora anche i lavoratori a domicilio e tutte le tipologie di apprendisti, e sono inoltre state modificate alcune condizioni relative all’anzianità lavorativa necessaria per l’accesso, alla sospensione del trattamento e all’importo del contributo addizionale a carico del datore di lavoro.
 
La CIGS è invece estesa a tutti i datori di lavoro che operano nei settori non coperti dai fondi di solidarietà bilaterali, con un ruolo residuale del Fondo di Integrazione salariale (FIS) dell’INPS.
 
Le maggiori novità della riforma riguardano dunque gli interventi di integrazione salariale straordinaria mentre, in materia di indennità di disoccupazione, si tratta solo di rimaneggiamenti. A fronte di questo fine comune, ossia quello di rendere universale il sistema di ammortizzatori sociali, nel rapporto si evidenzia come dal punto di vista della riduzione del rischio di povertà la strada da percorrere sia ancora lunga.
 
Non si comprende, ad esempio, lo scopo della contrazione dell’importo erogato ai percettori di NASpI o Dis-Coll, nella misura del 75% del reddito medio mensile. Una percentuale maggiore, infatti, darebbe luogo ad un reddito di maggior supporto per un soggetto che vive un momento delicato, quale quello dovuto alla perdita involontaria del lavoro.
 
Allo stesso tempo, risulta difficile capire come, in un sistema di protezione sociale quale quello italiano in cui esistono altre misure caratterizzate dal meccanismo della retroattività – come nel caso delle prestazioni pensionistiche o delle misure legate all’invalidità civile, dove è possibile ottenere un sostegno economico fin dal momento di presentazione della domanda all’INPS – nel caso di NASpI e Dis-Coll la prestazione venga erogata solo per il periodo successivo alla data della domanda. Non giova il termine decadenziale di 68 giorni per la proposizione della stessa, che, non volutamente, trae molti percettori in inganno.
 
Infine, occorre considerare che in molti casi i potenziali percettori non conoscono la normativa di protezione sociale vigente, e quindi non sono pienamente consapevoli delle prestazioni a cui avrebbero diritto: da questo punto di vista, potrebbe essere utile promuovere una migliore campagna di pubblicizzazione delle misure di supporto economico, ad esempio instituendo una sorta di informativa in merito, rilasciata dal datore di lavoro all’atto del licenziamento.

 
Misure di welfare e trappole di genere

 
Un ultimo aspetto che viene analizzato nel Rapporto è l’incidenza che hanno le misure di welfare sulle differenze di genere. Uomini e donne, infatti, non sono un target di beneficiari omogeneo, ma presentano profonde differenze nella partecipazione (o meno) al mercato del lavoro e alla vita economica e sociale, ciò in quanto a ciascuno vengono attribuite ruoli ed aspettative sociali specifiche.
 
Per questo motivo l’European Institute for Gender Equality (EIGE) ha raccomandato ai Paesi membri di effettuare una valutazione dell’impatto di genere – il c.d. gender assessment prima dell’introduzione di una nuova legge, in modo tale da individuare, in modo preventivo, le probabilità che una data decisione abbia conseguenze negative per lo stato di uguaglianza sostanziale tra uomo e donna. Per promuovere misure sensibili al genere non è dunque necessario adottare misure formalmente rivolte solo alle donne o agli uomini, né tantomeno misure neutre (in tali casi si parla di gender blind), ma è sufficiente applicare il gender assessment al complesso delle politiche.
 
Nel Rapporto INAPP sono individuate nello specifico due misure di welfare che rendono evidente come la mancata applicazione di tale metodo abbia rafforzato alcune criticità di genere.
 
In primo luogo, vi è il caso delle dimissioni per i genitori con figli con meno di 3 anni, un particolare caso in cui alla disoccupazione volontaria segue l’accesso alla NASpI, previa convalida presso l’Ispettorato nazionale del lavoro. Ebbene, dalle evidenze presentate dall’INAPP è emerso che, pur essendo questa misura prevista parimenti per entrambi i sessi, essa sia stata maggiormente richiesta dalle donne, con dati sempre crescenti nel corso degli anni (2011-2021), a fronte di una natalità comunque decrescente. L’accesso alla NASpI, vincolato alla rinuncia del lavoro, può rischiare di alimentare un fenomeno tipicamente femminile di abbandono del lavoro a seguito della maternità o per carichi di cura, costituendone un incentivo indiretto. Il tasso di inattività femminile è stato rafforzato e, inoltre, ha superato la media europea.
 
La seconda misura oggetto di studio è il premio di produttività, il quale può essere erogato alternativamente o tramite una quota aggiuntiva di retribuzione in busta paga, tassata attualmente al 5%, oppure convertito in beni o servizi di welfare, in regime di detassazione totale e con l’esonero contributivo per l’azienda. Nell’ambito dei servizi di welfare ampio spazio è occupato da quelle componenti, quali i servizi di cura, assistenza e sostegno familiare, nonché i bonus e facilitazioni alla gestione della casa e degli acquisti che attengono all’esercizio di funzioni svolte ordinariamente in prevalenza dalle donne. Stante quindi la specializzazione femminile nella funzione di cura, la conversione del premio di produttività da monetari a servizio di welfare, per le donne rischia di rappresentare un rafforzamento delle citate criticità. Questo rischio si acuisce maggiormente se si considera che la parte del salario che determina le maggiori differenziazioni di genere è proprio la parte variabile, sede di determinazione del premio di produttività. Dunque vi è l’effetto ulteriore di riduzione della retribuzione, già mediamente più bassa di quella maschile, contribuendo ad ampliare il già ampio gender pay gap.

 
Conclusioni e prospettive
 
Dalle evidenze trattate si desume che, nonostante i tentativi di riforma, l’aumento dell’occupazione atipica e del lavoro povero richiede una risposta pronta e celere da parte del policy maker, affinché si riduca il rischio di esclusione sociale per le fasce più deboli e meno tutelate della popolazione. L’impostazione generale del nostro sistema di welfare è maggiormente rivolta a chi si trova già nel mondo del lavoro (i c.d. insiders al sistema) e in misura minore a coloro che devono ancora intraprendere il proprio percorso lavorativo.
 
Tutto questo evidenzia, secondo lo stesso report, la necessità di una riforma incisiva del sistema di welfare italiano, per andare verso un modello pubblico universale che sia in grado di adattarsi rispetto a ciò di cui la società necessita e di rispondere alle nuove sfide del mercato del lavoro. Si tratta di sfide che richiedono soluzioni efficaci ma anche innovative.

 
Simona Contaldi

Consulente previdenziale

@SimonaContaldi

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