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Si fa un gran parlare di Industria 4.0. Crescono la produzione industriale (+3) e l’export (+8%). Ancora di più gli investimenti in quei beni materiali ed immateriali funzionali alla trasformazione tecnologica e digitale dei processi produttivi (+11%). Tutti dati superiori a quelli della Francia e (fatta eccezione per la produzione industriale) della Germania. La fase I del piano Calenda ha portato i frutti sperati e potrebbe agevolare la firma, da tempo attesa, del “patto della fabbrica”.
Difficile ipotizzare, tuttavia, cosa potrà accadere nel medio e nel lungo periodo, quando l’effetto degli incentivi sarà terminato. Bene le nuove tecnologie. Bene i macchinari di ultima generazione. Per vincere la sfida della modernizzazione del sistema produttivo è però necessario il concorso di altri fattori abilitanti. Primo tra tutti quello di una pubblica amministrazione efficiente che sappia accompagnare e favorire quei cambiamenti sociali e culturali che alimentano il mutamento di paradigma economico. Attorno alla pubblica amministrazione ruota tutto l’ecosistema della Quarta rivoluzione industriale: la scuola e l’università, le politiche attive e di ricollocazione, il welfare, la giustizia civile, penale e amministrativa, la pianificazione del territorio, i sistemi di protezione ambientale, l’infrastruttura digitale del Paese.
Alla velocità con cui le imprese hanno colto le nuove opportunità offerte dal piano nazionale per l’Industria 4.0 ha fatto da contraltare la lentezza della risposta amministrativa per la costituzione dei centri di competenza che pure avrebbero dovuto orientare i processi di digitalizzazione delle filiere industriali.
Nulla di sorprendente e nulla di nuovo. La lezione dei parchi scientifici e tecnologici poco o nulla ha insegnato, mentre bene sono stati messi in evidenza dal dibattito promosso dal Sole 24 Ore i quarant’anni persi dal nostro sistema universitario tra riforme e controriforme. Per non parlare dei problemi dell’alternanza e degli apprendistati del cosiddetto sistema duale, con istituzioni formative non sempre attrezzate a fornire il giusto supporto organizzativo ai tentativi di raccordo tra scuola e sistema produttivo.
Paradossale è poi la situazione dei fondi interprofessionali per la formazione continua dei lavoratori, a cui dovrebbe competere la messa a regime di un piano straordinario di alfabetizzazione digitale degli adulti, e che per interpretazione amministrativa sono stati attratti in logiche pubblicistiche che non poco ne rallentano l’azione e lo sviluppo. E cosa dire del sistema degli appalti pubblici, garanzia di odissee burocratiche e immancabili ricorsi al Tar. O, anche, dei rapporti di lavoro nel trasporto pubblico locale, che sono la prima infrastruttura degli oltre 600 mercati locali del lavoro italiani censiti dall’Istat, ancora governati da un regio decreto del 1931, fonte di incertezze interpretative e che rallenta il riallineamento della mobilità fisica delle persone allo sviluppo delle smart cities e della smart factories in una dimensione di sostenibilità ambientale.
Vincoli, veti e ipertrofie normative del Paese che imbriglia la vitalità di lavoratori e imprese con centinaia di lacci e lacciuoli sono noti e denunciati da tempo. Come noti sono i motivi e le spiegazioni di una malattia cronica, che chiamano in causa l’ingerenza della politica, la corruzione, l’autonomia e le responsabilità della dirigenza, lo stesso senso civico e i tanti comportamenti opportunistici di noi italiani. Un peso non secondario va però trovato nelle regole del lavoro che sempre più appaiono distanti dalla logica di servizio e di funzione pubblica che dovrebbe animare l’azione della pubblica amministrazione colmando quel fossato che sempre più divide popolo e Stato. Non si tratta solo di reclamare una inevitabile quanto aprioristica assimilazione tra regole del lavoro pubblico e del lavoro privato. Occorre piuttosto domandarsi a cosa servano automatismi di carriera, incentivi distribuiti a pioggia e stabilizzazioni ope legis che imbarcano nella pubblica amministrazione una zavorra destinata a gravare sulle generazioni future e sullo sviluppo del Paese. Vecchie regole e vecchie cattive abitudini che non solo accrescono il solco tra pubblico e privato ma che finiscono per mortificare la professionalità e anche la dignità del lavoratore pubblico che deve essere messo nelle condizioni di dare il meglio di sé, in primis da quel sindacato che è poi sempre in prima linea contro le, allora sì, inevitabili privatizzazioni, esternalizzazioni e contrazioni di risorse pubbliche.
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
*Pubblicato anche su Il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2018