Un confronto tra giovani ed esperti sulle grandi trasformazioni del lavoro, studenti ingaggiati in una competizione per tesi contrapposte sul tema del “lavoro agile” assieme alle esperienze di grandi imprese, da IKEA a BOSCH passando per Whirlpool e Randstad.
Una piacevole occasione di riflessione e confronto quella organizzata sabato presso l’Università degli Studi di Bergamo da Michele Tiraboschi della Scuola ADAPT per la presentazione del libro: Allenarsi per il futuro del prof. Pietro Paganini. Un dibattito attuale, non semplice da inquadrare, su cui esprimo alcune considerazioni.
Lo smart-work o “lavoro agile”, recentemente portato all’attenzione dalle provocatorie dichiarazioni del Ministro Poletti: “l’orario di lavoro è parametro vecchio” non è materia di futurologi, ma in molte aziende è già prassi operativa sancita da accordi negoziali: da General Motors a Vodafone, passando per Nestlè, Almaviva, ABB, Barilla, Micron e molte altre meno note.
Ciò non deve però far dimenticare che, in attesa dell’avvento diffuso della quarta rivoluzione industriale, molte smart-factory robotizzate e digitalizzate di domani, oggi assomigliano ancora alle fabbriche fordiste degli anni ’70.
Per questo oggi il tema dell’organizzazione del lavoro per molti è il problema di conciliare l’asilo del figlio quando i nonni sono lontani o non ci sono, la mamma deve essere al lavoro puntuale alle 8:00 e il papà “smonta” alle 6.00 dopo il turno in fabbrica della notte; o quando il sabato o la domenica la famiglia (che durante la settimana si incontra per pochi minuti al giorno) torna a dividersi perché globalizzazione e just-in-time “propongono” la saturazione degli impianti durante i picchi produttivi in alternativa alla delocalizzazione.
Bene quindi non innamorarsi della teoria in sé e a non affrontare il tema in modo astratto e generico.
Serve contestualizzare, il “lavoro agile” di un centro ricerche di Google o nell’ufficio di una web-agency non potrà mai essere lo stesso “lavoro agile” di un’azienda manifatturiera dove il target si chiama flessibilità produttiva e saturazione di impianti, il processo produttivo è gioco forza cadenzato da ritmi e tempi collettivi e il tema della conciliazione vita-lavoro assume problematicità (e quindi soluzioni) sostanzialmente diverse. Se non è ben chiara questa premessa si rischia di discutere di soluzioni senza essere consapevoli dei problemi cui quelle soluzioni si dovranno applicare.
Esercizio quindi prematuro? Assolutamente no, il processo ormai è avviato, industry 4.0 non è una teoria ma in molti paesi già una politica industriale (Germania e Cina in primis), molti lavori avvengono già al di fuori di schemi organizzativi tradizionali. Nei prossimi anni l’automazione di molte professionalità amplierà il campo di tale trasformazione creando nuove professionalità e sopprimendone altre, modificando i paradigmi del lavoro cui siamo abituati (e in alcuni casi affezionati…). Un processo che non riguarderà solo gli aspetti tecnologici, ma che coinvolgerà le persone, le loro competenze, il loro lavoro ed il modo in cui questo si concilia con la loro vita privata. Un processo che si può tentare di prevedere e governare o che si rischia di subire in assenza di una visione strategica.
Su un punto occorre però chiarezza: la riflessione sul concetto di ora-lavoro, se non accompagnata da una contemporanea attribuzione di autonomia organizzativa e responsabilizzazione del lavoratore, rischia di diventare l’ennesima occasione di scontro ideologico sui temi del lavoro. Troppo spesso quando parliamo di innovazione organizzativa le maggiori resistenze si trovano sul versante imprenditoriale, tanto bramoso di quella flessibilità produttiva imposta dalla globalizzazione quanto geloso dei modelli verticistici e autoritari delle vecchie imprese padronali.
Responsabilità delegata verso il basso, condivisione delle scelte organizzative e cogestione della loro implementazione, coinvolgimento dei dipendenti nel processo di miglioramento continuo e nella ridistribuzione della ricchezza che ne deriva, autonomia dei team di lavoro nella gestione degli strumenti di conciliazione vita-lavoro: non devono soltanto essere obiettivi e contropartite per le concessioni di maggiore flessibilità produttiva, ma devono entrare a far parte della cultura collettiva di lavoratori e imprese quali fattori strategici di sviluppo e di competitività.
Se il dibattito si svolgerà nel solco di un’innovazione normativa e contrattuale consapevole, competente, calata negli specifici contesti settoriali e aziendali, nel rispetto dei necessari pesi e contrappesi che governano ogni sano processo negoziale, allora, e solo allora, potrà creare opportunità condivise e portare benefici per tutti in un gioco che non sia a somma zero dove ciò che vince il più forte è ciò che perde il più debole.
Si può andare verso l’ignoto nell’incertezza, difendendosi dal cambiamento che prima si è atteso, poi temuto e infine subito, oppure lo si può fare mossi dall’aspettativa.
Questo succede quando quel cambiamento lo si è prima immaginato, raccontato e accompagnato.
Paolo Cagol
Segretario FIM-CISL Trentino
@paolocagol79