“L’Italia sembra un Paese senza storia per i fatti accaduti dopo la Prima Guerra Mondiale, noi abbiamo faticato a trovare una studentessa che ci parlasse di Biagi”. Parole dure come pietre quelle di Tore Sansonetti, autore di un documentario sul giuslavorista ucciso dalle Brigate Rosse quindici anni fa, che in un articolo su la Repubblica racconta la difficoltà di trovarne traccia nella memoria dei giovani studenti da lui intervistati presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, ateneo in cui Marco Biagi insegnava diritto del lavoro e dove chiscrive frequenta il corso di laurea magistrale in Relazioni di Lavoro.
Forse ha ragione Indro Montanelli quando scrive: “questo è un Paese senza memoria, dove l’unica cosa da fare è cercare di non morire perché chi muore è morto per sempre. È un Paese senza passato, il nostro, che non accumula né ricorda nulla. Ogni generazione non solo seppellisce quella precedente, ma la cancella”. O forse c’è qualcosa di più almeno per i tanti studenti come me che varcano ogni giorno i cancelli di una facoltà intitolata a Marco Biagi senza fare i conti con un recente passato di cui però si sa poco o nulla. In parte perché nel 2002 i più vecchi di noi avevano appena dieci anni. In parte perché quello che forse manca a molti Millennials è la curiosità, la fame di conoscere la storia, la voglia di indagare ciò che ha portato a una certa connotazione della società in cui vivono. Il paragone che mi viene immediato è quello con il mondo universitario degli anni sessanta, settanta, ottanta. A prescindere dalle ideologie politiche e alle appartenenze ai diversi schieramenti è innegabile che quel periodo fu uno dei più vivaci sia da un punto di vista politico- cultuale (mi riferisco a quello sano e non a quello violento) sia per la consapevolezza che contraddistingueva i ventenni di allora. Forse perché nell’aria c’era ancora l’energia propulsiva del dopoguerra che infondeva l’idea di poter cambiare le cose, di poter influire sulle dinamiche della politica e della società.
Questa possibilità di cambiamento, questa speranza, si è pian piano affievolita nel tempo, noi Milliennials abbiamo allentato le funi che ci tenevano ancorati al nostro passato ma allo stesso tempo non abbiamo stretto nodi più solidi con il futuro. Troppo concentrati sul ‘qui e ora’, sul nostro personalissimo presente, non riusciamo a pensare, pianificare una nuova idea di lavoro, economia, società. E non conosciamo neppure ciò che è venuto prima di noi. Trasmettere le storie, trasmettere la storia, dovrebbe però essere anche una funzione della scuola. Ma i programmi sono troppo lunghi, i tempi risicati ed ecco che ci accorgiamo che per noi la storia si è fermata alla Seconda Guerra Mondiale. Oltre troviamo un grande oceano di informazioni disordinate e a tratti risuonano degli spari: quelli degli anni di piombo, il cui eco è tornato a farsi sentire di nuovo quindici anni fa.
Forse manca in noi la curiosità. È però anche vero che la curiosità è un’attitudine che non tutti hanno e che dovrebbe essere coltivata dall’arte del “trasmettere” come avveniva nelle grandi famiglie patriarcali scomparse nel secolo scorso. L’immagine della famiglia riunita attorno al camino, con i ragazzini intenti ad ascoltare storie più o meno verosimili, non esiste più. Negli ultimi decenni i nuclei familiari si sono ridimensionati e le tradizioni, i miti, le lingue e le storie appunto si stanno via via perdendo. Stiamo perdendo il senso di comunità, stiamo perdendo le comunità, stiamo sradicando le solide radici che ci tenevano ancorati al nostro passato e senza le quali non arriva il nutrimento necessario per vivere e costruire un futuro, il nostro futuro. E’ anche per questo che vite come quelle di Marco Biagi sono sconosciute ai più.
Come evitare di perdere la nostra storia? Non avendo più solide reti familiari che si occupano di preservare la nostra eredità storica e culturale, la curiosità deve alimentarsi nella capacità di costruire vere relazioni con gli altri. I compagni di scuola e di università per noi studenti. Era questo in fondo l’insegnamento di Marco Biagi che si batteva per un progetto condiviso di riforma del lavoro sollecitando l’impegno di tutti a costruire assieme il futuro del lavoro.
Anita Cezza
ADAPT Junior Fellow