Non è questione di carattere, né di stile politico. Ciò che contrappone il primo ministro Renzi ai due principali leader della Cgil, Camusso e Landini, è una diversa visione dell’Italia. Tale contrapposizione si basa su due diversi paradigmi politici di riferimento, da cui poi derivano opposte strategie di azione politica. Naturalmente, non bisogna mai esagerare quando si vuole assegnare una visione coerente all’uno o all’altro leader politico e sindacale. Chi fa quel mestiere si muove per di più sulla base di passioni o di interessi. Tuttavia, sarebbe altrettanto riduttivo assumere che quei leader agiscano solamente sulla base di questi ultimi. Per di più, nel caso dello scontro tra Renzi e la Cgil, esso ha portato in superficie una divisione che ha le sue radici almeno negli anni Novanta del secolo scorso. Una divisione così profonda che ha portato, da allora, alla paralisi minoritaria della sinistra ovvero alla sua sconfitta reiterata.
La Cgil, i suoi esponenti di riferimento all’interno del Pd, buona parte dei funzionari che hanno avuto il controllo delle strutture periferiche del partito, tutti costoro si muovono sulla base di un paradigma che assume come ruolo primario della sinistra quello di combattere la diseguaglianza. Per costoro, la sinistra coincide con la lotta alla diseguaglianza prodotta necessariamente e inevitabilmente dal mercato capitalistico. Lo schema che interpreta le società moderne come società di classe è stato aggiornato ma non alterato.
Nella lotta contro la diseguaglianza, la sinistra deve fornire la rappresentanza politica a quel mondo del lavoro dipendente a cui il mercato non riconosce i diritti. L’aggiornamento socialdemocratico ha portato questa sinistra ad accettare di fatto il mercato, mantenendo però un istintivo sospetto nei suoi confronti. È la sinistra dei diritti (sociali in particolare) a prescindere. Per confrontarsi coni suoi avversari di classe, la sinistra deve disporre di un’organizzazione coesa e introversa, espressione dei gruppi sociali di riferimento del lavoro dipendente, le cui dirigenze condividono con la leadership del partito gli stessi valori politici (e stili di vita).
Come ha detto Landini a Rai 3, il lavoro deve essere il centro della politica della sinistra: chi tocca il lavoro (organizzato) si prende la scossa. Da tale paradigma derivano inevitabili conseguenze. Siccome la società italiana è divisa in classi contrapposte, allora è bene che le decisioni governative siano prese dopo un lungo lavoro di mediazione tra gruppi sociali e forze politiche.
La concertazione costituisce la condizione per tenere sotto controllo le contrapposizioni di classe e il bicameralismo simmetrico e necessario per prevenire la tirannia dei poteri forti sui gruppi deboli. Inoltre, l’apparato pubblico e il suo enorme sistema di imprese e agenzie deve essere permeabile alle esigenze di protezione della sinistra, prima ancora che a quelle di promozione dell’efficienza. È evidente che questo paradigma non riesce a spiegare la società italiana di oggi, né riesce a dare conto delle trasformazioni economiche e tecnologiche che sono state indotte dalla globalizzazione.
Naturalmente, la diseguaglianza è un grande problema, ma la sua esistenza è il risultato della chiusura corporativa del Paese. Infatti, per il primo ministro e la nuova generazione politica che ha preso il controllo del governo centrale e di molti governi periferici, il problema principale della società italiana è la sua chiusura corporativa, da cui poi deriva la sua configurazione diseguale.
Per questa sinistra, il paradigma politico di riferimento è quello della società chiusa: la frattura principale nell’Italia di oggi è tra chi è “dentro” e chi è “fuori”, tra chi beneficia di diritti, protezioni e privilegi e chi invece è costretto ogni giorno a ricominciare da capo. Come lo stesso Renzi ha ricordato nel discorso di Brescia, l’Italia è ingessata da micro-interessi, un’ingessatura che le ha finora impedito di svilupparsi come potrebbe. E, infatti, gli avversari di questa sinistra sono trasversali a tutti i gruppi, perché in tutte le posizioni, pubbliche e private, si sono formate rendite di posizione ovvero surrettizi autogoverni corporativi.
A causa di governi deboli e instabili, la politica ha lasciato agli interessi organizzati, pubblici e privati, il compito di regolare le attività sociali e istituzionali. Per questo motivo, il nuovo Pd non può limitarsi a rappresentare i vari gruppi organizzati, ma deve rivolgersi alla società nel suo complesso (deve avere cioè una vocazione maggioritaria).
La lotta alle corporazioni richiede una politica autonoma dagli interessi organizzati, perché solamente così essa può rappresentare l’interesse del Paese. Se questo è il paradigma, allora è evidente che la concertazione non costituisce la garanzia di stabilità sociale, ma piuttosto la fonte dell’ingiustizia tra generazioni, tra generi e tra gruppi. Ed è anche evidente che la politica può aprire la società se è dotata di basilari strumenti decisionali.
Di qui la necessità, per questa sinistra, di riformare il sistema parlamentare e la legge elettorale per sottrarre la politica ai condizionamenti e veti delle corporazioni politiche. L’esito dello scontro tra le ,due sinistre non riguarda solamente le sorti di una parte politica. Con Renzi, forse per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia può beneficiare di una sinistra liberale finalmente maggioritaria. Il successo di questa sinistra è una condizione per la nascita anche di una moderna destra liberale. Anche se in grande ritardo, l’Italia può finalmente liberarsi dalla prigionia della guerra fredda.