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Bollettino ADAPT 6 maggio 2019, n. 17
Il Tribunale di Napoli – Sezione Lavoro e Previdenza – in data 26 febbraio 2019 ha pronunciato una sentenza interessante in particolar modo in quanto è una delle prime decisioni in cui trova applicazione la disciplina del d.lgs. 23/2015 dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018.
Il caso di specie riguarda un lavoratore che, dopo essere stato assunto con contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato nel giugno del 2017, dopo poco più di tre mesi dall’assunzione risultava destinatario della Comunicazione Unilav di cessazione del rapporto di lavoro, per “recesso contratto di appalto”. Agiva quindi in giudizio per impugnare il licenziamento ritenuto illegittimo, deducendo in particolare il mancato rispetto delle procedure previste per i licenziamenti collettivi agli art. 24, 4 e 5 della l. 223/1991, essendo egli stato uno dei numerosi lavoratori licenziati nella medesima unità produttiva e per la stessa ragione economica. Il lavoratore chiedeva, conseguentemente all’accertamento della nullità, o comunque della inefficacia o illegittimità del licenziamento intimatogli, la reintegrazione nel luogo di lavoro, previa rimessione degli atti alla Corte Costituzionale (in merito agli artt. 3 e 10 del d.lgs. 23/2015), o, in via subordinata, l’estinzione del rapporto, fermo restando il pagamento di una indennità parametrata secondo quanto stabilito dalla legge.
Il Giudice, dopo aver istruito adeguatamente il giudizio, ha riconosciuto la fondatezza del ricorso, ha dichiarato estinto il rapporto di lavoro con efficacia dalla data del licenziamento, ha quindi condannato parte convenuta, rimasta contumace, al pagamento di una indennità stabilita discrezionalmente.
Risulta interessante procedere ad una breve analisi di alcuni dei temi toccati dalla sentenza, partendo dalla questione giuridica della natura del licenziamento e del mancato rispetto dell’iter procedimentale previsto dalla legge.
Le procedure disciplinate dagli artt. 4, 5 e 24 della l. 223/1991, infatti, sono obbligatorie per i licenziamenti cd. collettivi. Nel caso di specie, in virtù della pluralità di lavoratori raggiunti da comunicazione Unilav di cessazione del rapporto di lavoro (17 soggetti), nonché delle dimensioni complessive dell’azienda, e dell’arco temporale interessato dai licenziamenti, l’operazione è stata ritenuta collettiva ed è stata quindi constatata l’omissione delle procedure prescritte. Queste ultime, in particolare, prevedono una comunicazione preventiva ed in forma scritta alle rappresentanze aziendali e alle rispettive associazioni di categoria, ovvero in mancanza di queste, alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, contenente la spiegazione dell’eccedenza di lavoratori e la proposta di un piano di reimpiego o, ove non sia possibile, di licenziamento dei dipendenti; è previsto, poi, lo svolgimento di un esame congiunto tra le parti sulle possibili soluzioni al caso concreto, seguito da relazione scritta e inviata all’Ufficio provinciale del lavoro. Tale comunicazione deve essere anche seguita da una convocazione da parte del direttore dell’Ufficio provinciale di cui sopra, finalizzata eventualmente alla proposta di soluzioni che mettano d’accordo le parti. Soltanto all’esito di questo lungo iter sarebbe possibile per il datore di lavoro procedere al licenziamento dei lavoratori in eccedenza, attraverso una comunicazione scritta indirizzata a ciascuno di essi.
In questo caso, tuttavia, secondo quanto dispone il comma 12 dell’art. 4 della l. 223/1991, non essendo stato in alcun modo avviato il dialogo con le rappresentanze sindacali e né risultando un intervento delle stesse in corso di licenziamento, l’iter procedimentale di cui sopra non è stato rispettato, e di conseguenza è stata acclarata l’inefficacia della comunicazione del licenziamento.
Altra questione riguarda l’art. 5 della l. 223/1991, citato nel ricorso, il quale si occupa di disciplinare i criteri di scelta nella previsione di licenziamenti, particolarmente enfatizzato da parte attrice in quanto connette alla violazione dei criteri predetti l’applicazione del regime di cui all’art. 18, c. 4 dello Statuto dei Lavoratori (che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro, il pagamento di una indennità risarcitoria, il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali con la maggiorazione degli interessi in misura legale).
Per questa ragione, il lavoratore licenziato nel ricorso ha chiesto la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale affinché si pronunciasse sulla conformità alla Carta costituzionale degli artt. 10 e 3 del d.lgs. 23/2015, in quanto, risultando applicabile la disciplina di questo testo normativo successivo, il lavoratore non avrebbe potuto ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro.
Il Tribunale di Napoli, tuttavia, ha riconosciuto che la tutela indennitaria richiamata dall’art. 5 della l. 223/1991, così come modificato attraverso la l. 92/2012, prevista nel caso del mancato rispetto delle procedure di cui all’art. 4, c. 12 della l. 223/1991, sia idonea a fornire copertura anche al mancato rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da porre in mobilità. Sulla base di queste considerazioni, nello specifico, ha dichiarato che la tutela che deve essere riconosciuta al ricorrente consiste nella risoluzione del rapporto di lavoro e nella tutela indennitaria “a indennizzo economico crescente”.
In relazione alla quantificazione dell’indennità, il Giudice ha riconosciuto che, essendo il lavoratore stato assunto in data precedente all’entrata in vigore del d.lgs. 23/2015, risulta applicabile la nuova disciplina prevista negli artt. 10 e 3 dello stesso testo normativo. E pertanto, ai sensi del citato art. 10, in presenza di un licenziamento collettivo in cui non siano state rispettate le procedure previste degli artt. 4, 5, 24 della l. 223/1991 sopra menzionati, trova applicazione il meccanismo di calcolo previsto dall’art. 3, c. 1 dello stesso decreto 23/2015, come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale.
Non ritenendo applicabile l’ultima novella normativa apportata con d.l. 87/2018, poi convertito in l. 96/2018, all’art. 3, c. 1 del d.lgs. 23/2015, che innalza l’indennità ad un ammontare minimo di sei e massimo di trentasei mensilità, in quanto il licenziamento è avvenuto in epoca precedente all’entrata in vigore di quest’ultima, il Giudice dà applicazione al meccanismo di determinazione delle indennità come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, con applicazione dei previgenti minimi e massimi, rispettivamente di 4 e 24 mensilità.
Nel caso di specie, il Giudice, dopo aver accertato l’illegittimità del licenziamento ed aver, conseguentemente, dichiarato l’estinzione del rapporto di lavoro con decorrenza dalla data in cui è stato intimato il licenziamento, ha dato applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 e dei criteri in essa descritti per la quantificazione della indennità.
Pertanto, considerato che il rapporto di lavoro ha avuto una durata piuttosto breve (tre mesi circa), ritenuto, in base alle dimensioni complessive dell’attività economica e al numero di dipendenti raggiunti da comunicazione di cessazione del rapporto, che l’operazione sia qualificabile come licenziamento collettivo, valutato, quindi, il comportamento della parte datoriale, la quale non ha rispettato per nulla l’iter procedurale previsto dalla legge in presenza di licenziamenti collettivi, ha condannato il datore di lavoro alla corresponsione di una indennità ritenuta congrua (quattro mensilità), non assoggettata a contribuzione previdenziale, oltre interessi e rivalutazione monetaria dal licenziamento fino al soddisfo.
ADAPT Junior Fellow