Licenziamento ingiustificato nel contratto a tutele crescenti: perché il criterio di determinazione dell’indennità è incostituzionale

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Sono state pubblicate, l’8 novembre scorso, le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 26 settembre 2018, con la quale si è stabilito che l’art 3, comma 1 del c.d. “Jobs Act” (ossia del D.Lgs. n. 183/2015, anche come modificato dal c.d. “Decreto Dignità”, il D.L. n. 87/2018, convertito in L. n. 96/2018) viola gli artt. 3, 4 e 35 della Costituzione e l’art. 24 della Carta sociale europea (tramite gli artt. 76 e 117 Cost.).

 

Vediamo allora perché la norma che regola i licenziamenti irrogati ad operai, quadri ed impiegati senza che ricorrano gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) è stata dalla Corte censurata.

 

Innanzitutto è necessario ricordare che il “Jobs Act” aveva previsto l’obbligo, per il datore di lavoro, di indennizzare il lavoratore, nelle eventualità sopra dette, con una somma pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di anzianità di servizio, con un minimo di 4 (portate a 6 dal “Decreto Dignità”) e un massimo di 24 (portate a 36 dal “Decreto Dignità”) mensilità.

 

La Corte ha allora ritenuto incostituzionale non la suddetta misura dell’indennità per ogni anno di anzianità (2 mensilità); non i suoi limiti minimo e massimo (rispettivamente 4, ora 6, e 24, ora 36, mensilità); non la differenziazione venutasi a creare tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, posto che «il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» (cfr. Corte Cost. n. 254 del 2014); non la diversa regolazione del recesso datoriale per operai, quadri ed impiegati e per i dirigenti, bensì il criterio per determinare l’indennità spettante al lavoratore licenziato, sostanziantesi in una cifra fissa correlata alla sola anzianità di servizio, e pertanto in alcun modo adattabile caso concreto, da parte del giudice adito, se non attraverso la semplice operazione matematica necessaria per il relativo conteggio.

 

Più precisamente, si è evidenziato che spetta al giudice quantificare l’indennità, non solo applicando il criterio della anzianità di servizio, ritenuto di per sé solo insufficiente, ma anche valorizzando altri elementi, quali il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le dimensioni dell’attività economica ed il comportamento e le condizioni delle parti, già “storicamente” posti alla base delle decisioni giurisprudenziali in materia.

 

Il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. è risultato allora violato in quanto sono state sostanzialmente omologate situazioni potenzialmente molto diverse, ma è stato ritenuto leso anche il principio di ragionevolezza, in quanto l’art 3, comma 1 del “Jobs Act”, nella sua formulazione originaria ma anche a seguito delle modifiche intervenute nel 2018, non è stato ritenuto idoneo a fornire alcuna garanzia di un adeguato ristoro del danno a favore del lavoratore, né d’altra parte nemmeno a costituire un apparato sanzionatorio idoneo a assicurare una adeguata dissuasione del datore di lavoro ad irrogare un licenziamento senza che ricorressero una giusta causa o un giustificato motivo. In sostanza, la norma colpita dal giudizio della Corte non è stata ritenuta in grado di attuare un adeguato contemperamento tra gli opposti interessi in conflitto: la libertà di organizzazione dell’impresa e la tutela del lavoratore.

 

Ugualmente, sono stati ritenuti violati l’art. 4 Cost. (che garantisce il “diritto al lavoro”), l’art. 35 Cost. (che tutela il lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni”), e l’art. 24 della Carta sociale europea (tramite gli artt. 76 e 117 Cost.), che, per la violazione citata, prevede la necessità di un congruo indennizzo o di “altra adeguata riparazione”.

 

A seguito della pubblicazione delle motivazioni della sentenza, si è addirittura ipotizzato che il contratto a tutele crescenti sia divenuto in qualche modo “più conveniente” per operai, impiegati e quadri, rispetto a quello tutelato dall’art. 18 St. Lav.. È allora plausibile ritenere, innanzitutto, che potrà subire una battuta di arresto la “corsa” all’inserimento, nei contratti individuali di lavoro (naturalmente se stipulati in presenza di un certo potere contrattuale del lavoratore), ma anche negli accordi collettivi, di clausole ad hoc volte a garantire al lavoratore, sebbene assunto dopo il 7 marzo 2015, le tutele di cui, appunto, all’art. 18 St. Lav.

 

In realtà, la configurazione normativa venutasi a creare a seguito del pronunciamento della Corte porta a ritenere che la scelta dell’una, piuttosto che dell’altra forma di tutela (come detto, quando possibile), si manifesti più come una sorta di “scommessa”. Chi sostiene che il “Jobs Act”, così come modificato dal Decreto dignità” e interpretato alla luce della sentenza n. 194/2018 della Corte Cost., preveda nel complesso una tutela maggiormente favorevole per operai, impiegati e quadri, rispetto all’art. 18 St. Lav. così come modificato dalla “Legge Fornero” (L. n. 92/2012), in realtà dà come certo ciò che certo non è, ossia che il Giudice adito riterrà adeguate, da ora in avanti, indennità sempre vicine, nella loro entità, al tetto massimo, cosa che potrà essere invero nota soltanto se e quando la giurisprudenza in materia si sarà “assestata”. Inoltre non tiene conto del fatto che, in un mercato del lavoro stagnante, dove i servizi per l’impiego latitano (sebbene interessati da – finora laconiche – proposte di riforma), potrebbe esservi ancora qualcuno “interessato” alla possibilità di una reintegra (si pensi al caso dei lavoratori anziani, o residenti in aree particolarmente depresse).

 

Deve qui rimarcarsi, peraltro, che determinate sigle sindacali hanno già confermato l’importanza di continuare a richiedere l’applicazione dell’art. 18 St. Lav. ai tavoli attualmente aperti, veicolando così certamente un messaggio in senso lato “politico”, ma anche tecnicamente non del tutto opinabile, potendo questa posizione “fare affidamento” su una giurisprudenza consolidata (oltre che sul dato oggettivo in virtù del quale, in caso di applicazione delle tutele di cui al contratto a tutele crescenti, non vi è alcuno spazio per la contrattazione collettiva, e infine sulla considerazione che il “Jobs Act”, in caso di licenziamento per giustificato oggettivo, esclude sempre la sanzione della reintegra).

 

Flavia Pasquini

ADAPT Steering Committee

@PasquiniFlavia

 

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