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Bollettino ADAPT 20 febbraio 2023, n. 7
Frequentemente, nel silenzio di una normativa che contrasti efficacemente questa forma di abuso del diritto, ci si imbatte in risoluzioni del rapporto di lavoro che dissimulano un accordo di risoluzione consensuale, «spostando» a carico della collettività, attraverso la NASpI, il costo di una transazione economica tacitamente convenuta tra l’impresa ed il lavoratore.
Il trattamento di disoccupazione, riformulato e novellato dal d.lgs. n. 22/2015, è dovuto, come noto, nei soli casi di disoccupazione involontaria, che si manifesta nel caso di licenziamento per giusta causa e/o giustificato motivo e nelle ipotesi di «risoluzione consensuale» del rapporto di lavoro sottoscritte in sede protetta, già disciplinate dall’art.7 della l. n. 604/1966 ed oggi dall’art.6 del d.lgs. n. 23/2015.
Sul tema si segnalano alcuni recenti e raffinate sentenze del Tribunale di Udine (Trib. Udine, sentenza 30 settembre 2020, n. 106; Trib. Udine, sentenza 27 maggio 2022, n. 20), con cui i giudici di merito hanno stabilito che la presenza di inequivoche circostanze di fatto [nel caso specifico: l’assenza ingiustificata mirata ad indurre il datore di lavoro a procedere al licenziamento del lavoratore] non costituisce una causa di perdita incolpevole del posto di lavoro – con conseguente diritto alla NASPI per il lavoratore e obbligo per il datore di lavoro di versare il ticket ex art.2 legge 92/2012 – bensì un’ipotesi di dimissioni, divenute efficaci per «fatti concludenti» nonostante la mancata formalizzazione delle stesse attraverso la procedura on line prevista dall’art. 26 d.lgs. n. 151/2015.
Nelle due citate sentenze l’iniziativa risulta promossa dal [solo] lavoratore che, nel primo caso, si era assentato dal lavoro per diversi giorni senza fornire alcuna giustificazione, nel secondo caso chiedeva esplicitamente al datore di lavoro di essere licenziato per consentirgli di percepire la NASpI, fornendo allo stesso il pretesto dell’assenza ingiustificata dal lavoro.
In entrambi i casi esaminati dal giudice, il datore di lavoro resisteva al comportamento illegittimo del dipendente procedendo [nel primo caso] ad una compensazione a-tecnica sul TFR della somma versata per il c.d. ticket di licenziamento [ex art.2 l.982/2012], nel secondo caso procedendo solo dopo alcuni mesi alla comunicazione al Centro per l’Impiego delle dimissioni «tacite» del lavoratore.
Sulla questione si segnalano anche alcuni interventi della Suprema Corte, che in prima battuta ha ritenuto che dalla semplice assenza dal lavoro non possa desumersi la volontarietà delle dimissioni, atteso che la convalida delle stesse è imposto dalla legge a pena di inefficacia; più recentemente (Cass. n. 160/2020) ha ritenuto legittima [e sufficiente] la prova «indiziaria» dell’assenza ingiustificata, anche in mancanza di dimissioni on line, condannando il lavoratore al risarcimento del danno, in misura pari al ticket versato all’atto di risoluzione del rapporto di lavoro, per aver «costretto» l’impresa al suo licenziamento.
Nella questione che qui si affronta, si prospetta una convergenza di interessi tra lavoratore e datore di lavoro i quali, una volta determinatisi a risolvere consensualmente il rapporto di lavoro, simulano un licenziamento al solo scopo di far percepire «legalmente» al lavoratore la NASpI e le altre somme già tacitamente convenute. Somme che, per colmo di ironia, vengono effettivamente versate e (rispettivamente) ricevute a seguito della sottoscrizione di un verbale di conciliazione in «sede protetta», che di fatto blinda l’accordo illecito tra le due parti proteggendolo da ripensamenti postumi, non essendo più conveniente per nessuna delle due parti sollevare la questione avanti a un giudice.
Si potrebbe sostenere che, in realtà, l’iniziativa di porre fine al rapporto di lavoro è sempre ed esclusivamente di interesse del datore di lavoro, che trova disponibilità nel lavoratore solo in quanto quest’ultimo, per i più svariati motivi, non ha più convenienza a rimanere nello stesso ambiente lavorativo. Ma vi sono anche casi di accordi [fraudolenti] «genuini», come nel caso del lavoratore prossimo al pensionamento che, non avendo più necessità di reperire un nuovo lavoro, può essere interessato ad anticiparne l’esodo attraverso un accordo economico di reciproca convenienza.
In tutti i casi, tuttavia, le parti, più o meno spontaneamente, convengono di porre in essere un atto in frode alla legge, che nel caso specifico potrebbe identificarsi con la fattispecie della truffa aggravata ai danni dello Stato, ai sensi del secondo comma dell’art. 640 del codice penale.
La questione del vuoto normativo che rende possibili questi accordi illeciti era stata correttamente [e proficuamente] affrontata dalla l. n. 92/2012 la quale, riformulando l’art. 7 della l. n. 604/1966, aveva reso possibile la risoluzione consensuale del rapporto con diritto al trattamento di disoccupazione attraverso una procedura trasparente, che partiva dal tentativo di conciliazione in sede protetta (la DTL), in cui si esaminavano le possibili soluzioni e convergenze e che si completava con la risoluzione del rapporto, consensuale o meno, che in entrambi i casi consentiva la percezione della NASpI da parte del lavoratore.
Il difetto di questa riforma era la mancata estensione della stessa alle piccole imprese, anche se il vuoto è stato successivamente [e maldestramente] colmato dall’art. 6 del d.lgs. n. 23/2015 con l’offerta di conciliazione, applicabile a tutti i nuovi assunti dal 7 marzo 2015, da esperire entro 60 giorni dal licenziamento, anche in assenza di impugnazione del licenziamento stesso da parte del dipendente.
Per quanto l’intento auspicato dal decreto fosse quello di allargare la platea dei lavoratori e delle imprese che possono avvantaggiarsi della nuova disciplina avvalendosi di una procedura di conciliazione stragiudiziale semplificata in grado di ridurre il contenzioso giudiziario – [anche] grazie al cospicuo beneficio economico e fiscale [le somme offerte vengono erogate al netto delle imposte e dei contributi previdenziali] – questa opportunità si è rilevata scarsamente utilizzabile, per l’evidente motivo, da più parti segnalato sin dall’epoca della sua emanazione, che appare poco probabile che un datore di lavoro, nei giorni successivi al licenziamento, rischi di vedere interpretata l’offerta conciliativa come un’ammissione di colpa [o di errore], che potrebbe compromettere la futura fase giudiziaria in caso di mancato accoglimento dell’offerta da parte del lavoratore. Un rischio ancor più alto ed evidente a seguito dell’aumento dell’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo, salito ad un minimo di 6 e ad un massimo di 36 mensilità dopo l’entrata in vigore del «Decreto Dignità» (d.l. n. 87/2018).
Di riflesso, l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità sembra aver sostanzialmente confinato a mere ipotesi residuali le fattispecie di licenziamento ingiustificato sanzionabili con il solo indennizzo sostitutivo – che miravano a rendere certo il costo del licenziamento – riformulando i presupposti giuridici che portano alla reintegrazione nel posto di lavoro in misura diversa da quelli ipotizzati dal Legislatore del Jobs Act.
In realtà, alcune ipotesi di soluzione al problema sarebbero già alla portata del legislatore senza nuove inutili [e spesso dannose] invenzioni: ad esempio ripristinando la procedura dell’art. 7 della l. n. 604/1966 anche per le piccole imprese, eliminando i limiti di indennizzo che le parti potrebbero concordare direttamente confrontandosi in una sede protetta e mantenendo lo sconto fiscale e contributivo introdotto dal d.lgs. n. 23/2015.
In questo contesto, tuttavia, sarebbe anche utile affrontare con sguardo aperto alla nuova negoziazione assistita, introdotta dalla Riforma Cartabia, estesa alle conciliazioni sottoscritte in presenza di avvocati e consulenti del lavoro. Si ritiene infatti che la stessa potrebbe fornire un concreto supporto alle sedi protette, sfoltendo l’attività dei Tribunali del Lavoro, solo se la procedura ex art.7 della l. n. 604/1966, così riformulata e con i suoi effetti diretti sulla NASpI, fosse con certezza esperibile anche in sede di negoziazione assistita.
Il tempo per fare una valutazione di convenienza ci sarebbe. Basterebbe la buona volontà.
Antonio Tarzia
ADAPT Professional Fellow