Come cambia l’idea del lavoro in Europa? Tenta di rispondere a questo interrogativo Dominique Méda, Professoressa di sociologia all’Université Paris-Dauphine e Direttrice dell’IRISSO (Institut de Recherche Interdisciplinare en Sciences Sociales), la quale ha di recente pubblicato una ricerca commissionata dall’ILO volta ad analizzare l’evoluzione del concetto di lavoro alla luce dei cambiamenti economici e tecnologici, nonché i suoi effetti sui lavoratori.
L’idea del lavoro alle origini
L’Autrice ci ricorda come il lavoro si sia trasformato da mera attività produttiva logorante (si veda l’origine della parola francese travaille: tortura, sacrificio) ad un’«attività positiva e creativa», così come descritta Marx. In particolar modo, è nel IXX secolo che il lavoro assume quel ruolo centrale che oggi gli attribuiamo, divenendo l’«essenza dell’umanità». Tuttavia, se Marx preconizzava una società egualitaria dove l’attività lavorativa non avrebbe presupposto il concetto di salario, essendo il lavoro piuttosto una necessità di tipo quasi spirituale, gli eventi hanno seguito un diverso corso. I governi e le costituzioni europee, infatti, hanno consolidato il concetto di retribuzione, presentandolo come la strada principale per una vita socialmente desiderabile. Dunque anche il diritto del lavoro e della previdenza sociale, nella maggior parte dei Paesi europei, si è modellato intorno a questo paradigma concettuale. Si è così rafforzato sia il valore del rapporto di lavoro subordinato che il concetto di retribuzione, da cui l’idea che il benessere sociale sia necessariamente legato alla crescita intesa come aumento della produttività e dell’occupazione.
L’idea del lavoro oggi: tra etica del dovere ed esigenze di sostentamento
L’analisi delle indagini condotte dall’Europen Values Study (EVS) ai lavoratori di 47 Paesi in quattro ondate di interviste (1981, 1990, 1999 e 2008), mostra il modo in cui gli europei si rapportano al lavoro. Se da un lato è ancora diffusa una visione del lavoro come “etica del dovere”, dall’altro rimane dominante la concezione del lavoro nella sua dimensione “strumentale”: in media l’84% degli europei considera il lavoro importante, poiché permette di “sbarcare il lunario”. Ovviamente le percentuali all’interno dei singoli Paesi variano: dall’89% del Portogallo, al 55% della Danimarca; non è irragionevole ritenere che dove il sistema di welfare è migliore, l’esigenza di un lavoro ben retribuito è inferiore. Un’ultima visione in crescita tra la popolazione è l “expressive dimension” del lavoro, che lo interpreta come mezzo di autorealizzazione. Questo atteggiamento alla vita lavorativa risulta particolarmente diffuso tra i giovani, le persone maggiormente istruite e le donne.
Il lavoro ai tempi della flessibilità
L’analisi delle condizioni attuali del mercato del lavoro presenta ulteriori elementi di complicazione. Il miracolo economico verificatosi tra gli anni 1945 e 1974 aveva come fulcro la possibilità di produrre beni standardizzati destinati ad un ampio mercato c.d. di massa. Tuttavia, nel momento in cui la globalizzazione ha imposto ai Paesi il confronto con i mercati esterni, la crescita si è interrotta e gli imprenditori sono dovuti ricorrere a misure di flessibilità nella gestione della forza lavoro. La flessibilità del lavoro ha avuto riflessi importanti nella vita dei lavoratori europei. In particolar modo, la disoccupazione in crescita e il sempre più frequente ricorso a forme contrattuali atipiche hanno inciso sullo stato psico-fisico dei lavoratori stessi, come dimostra l’indagine EVS del 2010, secondo la quale solo il 15% degli intervistati non ha mai sofferto di patologie legate allo stress lavoro-correlato. Méda denuncia come oggi le aziende chiedano ai propri lavoratori di essere più partecipativi, ma negano loro strumenti di maggiore autonomia. Al contrario, le aziende hanno rafforzato l’aspetto della supervisione e dell’individualizzazione, con buona pace dell’autostima dei lavoratori. Infatti, una ricerca di Gallie e Zhou (2013) dimostra come, nelle aziende che rendono maggiormente partecipi del processo produttivo i propri lavoratori, si manifesti tra di essi uno stato di benessere generale, meno assenteismo e maggiori soddisfazioni lavorative.
Nuove tecnologie e mercato del lavoro
Inoltre, l’automatizzazione del lavoro sta modificando necessariamente la fisionomia del mercato del lavoro. Nel modello delle start-up, il lavoro è sempre più da intendersi come collaborativo; si assottiglia la differenza tra vita privata e vita professionale; quest’ultima è caratterizzata da una somma di attività lungo l’arco della giornata, di cui si è gli unici responsabili. Anche le abilità richieste a chi entra nel mondo del lavoro oggi si sono trasformate. Le qualità più richieste sono: attitudini alla leadership, al problem solving e particolari doti comunicative, nonché innovative. La digitalizzazione, inoltre, ha reso possibile l’eliminazione della mediazione tra chi chiede e chi fornisce il servizio ( il c.d. work on tap) e delle barriere in entrata rappresentate dalle categorie professionali. Méda parla al riguardo di “uberizzazione” (dal caso Uber, famosa app per il trasporto alternativo ai taxi) della società. Ma quali sono le conseguenze per chi opera in questo mercato? Si tratta di un mercato dove chi fornisce la prestazione non è considerato né un impiegato, né un imprenditore, ma piuttosto un “partner”. In conclusione, si lavora come dipendenti, sotto la supervisione di un terzo (sebbene sia un algoritmo), ma non si ha nemmeno un contratto sul quale poter contare. In questo modo il rischio di impresa passa dall’azienda al lavoratore, il quale non può, però, partecipare alla ripartizione dei profitti che restano tutti in capo all’azienda.
Tre scenari per il futuro del lavoro
Dunque la domanda che ci si pone è la seguente: è davvero necessario che, per adeguarsi ai nuovi fenomeni tecnologici e digitali, il diritto del lavoro debba rinunciare ai propri capisaldi? Dalla letteratura finora disponibile emergono tre scenari per il futuro del lavoro. Il più criticabile è quello della prosecuzione di una politica volta allo smantellamento dell’attuale legislazione del lavoro, che porterebbe necessariamente ad un peggioramento delle condizioni lavorative. A questo si affianca la c.d. rivoluzione tecnologica, che l’opinione più diffusa considera una minaccia per la sopravvivenza di molti posti di lavoro. In realtà sono tanti i fattori che dimostrano il contrario: dalla resistenza della categoria dei professionisti, già oggetto di una concorrenza sleale da parte delle nuove start up digitali, all’opposizione di tipo etico dei consumatori per certi prodotti eccessivamente tecnologici (si pensi alle c.d. google car), l’avvento di una società completamente robotizzata non è così certa ed inevitabile come si crede. Ma l’aspetto che è stato ancora poco studiato riguarda la possibilità di sfruttare tale rivoluzione per agevolare la c.d. “conversione ecologica”, terzo ed ultimo scenario individuato da Méda.
Istruzioni per una conversione ecologica
Sono tanti ormai gli autori che sostengono la necessità di una conversione ecologica, poiché se da una parte l’industrializzazione e l’attività produttiva hanno portato ad una crescita del PIL e ad un benessere inattesi, dall’altra l’ambiente ne è rimasto profondamente danneggiato (Beck 1992, Méda 2000, 2013, Gadrey 2010, Heinberg 2011). Affinché ciò avvenga sarà necessario ragionare in un’ottica nuova, dove a contare non è più la quantità di ricchezza prodotta (PIL), ma la qualità della vita che in una nazione si riscontra. La crescita non è un paradigma dalla validità inconfutabile, anzi: se per crescita si intende lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili e delle energie dei lavoratori, come è stato fatto finora, allora la sua assenza non è necessariamente un fatto negativo. Le realtà europee dimostrano che può esistere l’aumento dell’occupazione anche senza crescita, ad esempio diminuendo l’orario di lavoro (come è accaduto in Francia e Germania). Quest’ultima soluzione permetterebbe, inoltre, di destinare del tempo alle altre sfere importanti della vita privata come la famiglia. Inoltre vi sono settori finora sottostimati che rappresentano una possibilità di impiego socialmente apprezzabile, come il settore della cultura o dell’assistenza alle persone anziane (Gadrey 2014).
Se l’economia diventa etica
Le condizioni e gli obiettivi che i Paesi si devono porre, sostiene Méda, affinché la conversione ecologica abbia luogo sono riassumibili nell’idea di reintrodurre l’etica nell’economia. Oltre ai provvedimenti già citati, sarebbe auspicabile un maggiore intervento dello Stato. Un maggiore coinvolgimento delle istituzioni, secondo l’Autrice, porterebbe i cittadini a sentirsi attori consapevoli dell’evoluzione della società e, di conseguenza, a fare scelte ecocompatibili. In conclusione la vera svolta nel mondo del lavoro si avrà se si accetta la sfida di una conversione ecologica. In questo modo si risolverebbero le tre grandi crisi in corso: quella occupazionale, tramite una riorganizzazione del lavoro e la nascita di settori di impiego del tutto nuovi; quella sociale, migliorando le condizioni di vita dei lavoratori; e quella ambientale, facendo del rispetto dell’ambiente una scelta politica ed economica.
Federica Capponi
ADAPT Junior Fellow