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Bollettino ADAPT 22 aprile 2024, n. 16
L’impatto dell’intelligenza artificiale sul mercato del lavoro è sempre più oggetto di approfondimenti e analisi (vedi l’archivio Bollettino ADAPT alla voce “intelligenza artificiale”). Tra i principali profili di analisi rientrano quelli legati all’automazione delle mansioni e al rischio di sostituzione della manodopera umana, alla privacy, al controllo sui lavoratori, alla profilazione, alla salute e sicurezza sul lavoro. Meno è stata indagata, invece, la dimensione retributiva delle occupazioni esposte all’intelligenza artificiale, cioè come l’intelligenza artificiale abbia – negli anni – influenzato i salari nei mestieri in cui viene utilizzata.
Sul punto, è interessante una recente pubblicazione dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) curata dall’economista Alexander Georgieff e pubblicata lo scorso 10 aprile.
La ricerca, dal titolo “Artificial intelligence and wage inequality”, si propone di indagare se e come l’avvento dell’IA stia incidendo sulle disuguaglianze salariali tra i diversi gruppi di lavoratori e se esista una correlazione fra l’impatto che l’innovazione tecnologica ha avuto in certi settori professionali e i rispettivi salari, verificando se l’introduzione dell’intelligenza artificiale abbia aumentato o diminuito le differenze salariali fra i lavoratori.
Più precisamente, sono stati presi in considerazione 36 profili professionali, scelti tra i c.d. white collars, cioè i lavoratori cognitivi adibiti a mansioni “non routinarie” (come i manager, i professionisti legali o gli insegnanti) e i lavoratori meno qualificati adibiti a mansioni prevalentemente fisiche e routinarie (come gli addetti alle pulizie o gli assistenti in cucina).
Per ciascun gruppo professionale viene pertanto osservato, da un lato, il c.d. tasso di esposizione all’intelligenza artificiale – un indice utilizzato dagli economisti che permette di rilevare quanto una professione si componga di mansioni o attività eseguibili artificialmente –; dall’altro lato, viene considerato l’andamento dei salari dal 2014 al 2018 in 19 Paesi (Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Polonia, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia e Stati Uniti), secondo le rilevazioni del Structure of Earnings Survey (SES) dell’Eurostat dell’US Current Population Survey (CPS) dell’Ufficio del censimento degli Stati Uniti.
Tramite un’analisi di regressione in cui si lega il differenziale salariale all’esposizione occupazione all’IA, viene verificato se e come l’intelligenza artificiale abbia influenzato le disuguaglianze salariali. Le disuguaglianze indagate sono di due tipi: da una parte quelle tra le professioni (between) e dall’altra quelle all’interno della medesima professione (within). Nel primo caso, ci si riferisce alle disuguaglianze fra lavoratori molto esposti all’IA – che sono quelli cognitivi e del personale più qualificato – e quelli meno esposti all’influenza dell’IA – che riguardano i lavori connotati da mansioni prevalentemente fisiche –. Nel secondo caso, invece, si vuole verificare se una maggiore o minore esposizione all’IA diminuisca il gap salariale fra i valori più alti e quelli più bassi della scala retributiva per chi è impiegato nello stesso lavoro.
Dai risultati emerge che l’avvento dell’IA, nel periodo considerato, non ha inciso nelle differenze salariali tra i diversi gruppi professionali che invece rimangono soggette ad altri fattori (come, ad esempio, alle politiche di salari minimi in ciascun Paese oltre che lo stato di salute de settore economico di riferimento).
All’interno delle medesime professioni, invece, l’autore dimostra che le distanze della scala di retribuzione sono diminuite grazie all’impatto positivo dell’intelligenza artificiale. Sebbene non ne vengano indagate le ragioni, vengono avanzate alcune ipotesi sul perché avvenga tale fenomeno. Ad esempio: perché le persone alla base della scala salariale (e meno competenti lavorativamente) traggono un beneficio maggiore dall’utilizzo dell’IA rispetto ai lavoratori più preparati o, piuttosto, perché non sono in grado di adattarsi ai nuovi strumenti tecnologici e si spostano verso lavori che prevedono mansioni non automatizzate.
È però bene sottolineare anche quali sono i limiti di tale ricerca. La rilevazione copre gli anni che vanno dal 2014 al 2018 in cui, com’è noto, l’intelligenza artificiale non era sviluppata come oggi. L’Osservatorio di IA presso l’OCSE definisce l’IA “as a machine-based system that, for explicit or implicit objectives, infers, from the input it receives, how to generate outputs such as predictions, content, recommendations, or decisions that can influence physical or virtual environments”. Per il periodo preso in considerazione nello studio, l’IA era in grado di eseguire compiti non routinari quali riordino e organizzazione delle informazioni, memorizzazione, velocità percettiva e capacità di riconoscimento di modelli noti (come figure, oggetti, parole). Tuttavia, le innovazioni introdotte in anni più recenti hanno trasformato ampiamente il panorama di avanzamento tecnologico. Oggi, infatti, si parla di “intelligenza artificiale generativa” che si caratterizza per la capacità di generare nuovi contenuti (come un testo o un’immagine) o fare previsioni per il futuro. I suoi effetti, però, sono ancora scarsamente rilevabili ed è difficile essere in grado di osservarne le implicazioni economiche e sociali.
Sebbene, dunque, le cautele siano necessarie, lo studio rimane interessante per la strategia empirica utilizzata e i risultati della ricerca sono interessanti, anche per il dibattito italiano, nella misura in cui suggeriscono che l’avvento dell’intelligenza artificiale può essere positiva per ridurre il divario salariali di ciascuna professione.
È molto facile, fra gli economisti e gli studiosi della materia, trovare una forte polarizzazione fra i così detti tecno-ottimisti e i tecno-pessimisti, fra chi ritiene che vi sarà prevalentemente un effetto di sostituzione e chi invece un effetto di produttività che creerà nuovi posti di lavoro ancora oggi inesplorati. Il contributo in esame è utile per estendere il dibattito anche al modo in cui l’avvento delle nuove tecnologie impatti i salari.
In conclusione, se è stato dimostrato che l’esposizione all’IA diminuisce il gap salariale infra professionale, rimangono tutte da esplorare le ragioni per le quali ciò avvenga, se per un innalzamento dei livelli di produttività, di riduzione del tempo lavorato, per un aumento della qualità nelle mansioni svolte o per ancora altre ragioni. Tutti questi elementi saranno utili per capire se e in che modo si possa ampliare l’impatto positivo dell’intelligenza artificiale e trarne il maggior beneficio da poter impiegare nel mercato del lavoro.
Federica Chirico
Apprendista di ricerca ADAPT