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È oramai certo che il Governo inserirà nella prossima legge di stabilità alcune misure finalizzate all’incremento della occupazione giovanile. Per tutta l’estate si sono susseguite indiscrezioni in questo senso. Non sono tuttavia ancora chiare le soluzioni tecniche che saranno adottate. Gli ultimi rumors parlano di sgravio contributivo parziale (ma sostanzioso) riconosciuto per tre annualità per tutti i nuovi assunti a tempo indeterminato con età inferiore a 32 anni. Non vi sono d’altra parte le risorse per replicare la generosa, orizzontale e indistinta decontribuzione concessa nel 2015. Tale misura, pure non esente da critiche essendo costata quasi 20 miliardi per numero di nuove persone occupate piuttosto risicato (inferiore alle 200.000 unità, dato 2015 su 2014; molte centinaia di migliaia in più sono invece state le trasformazioni contrattuali), è ancora oggi la politica di riferimento del Partito Democratico in materia di lavoro. Gli stessi tecnici che hanno lavorato su quel piano sanno bene che tra le migliaia di occupati aggiuntivi incoraggiati dalla decontribuzione c’erano ben pochi giovani, rimasti schiacciati da una soluzione che li ha messi in competizione con lavoratori più esperti e quindi produttivi, tagliando loro non solo e non tanto i contributi, ma uno dei principali fattori di vantaggio che i neoassunti hanno rispetto ai senior: il costo.
Negli anni successivi la disoccupazione giovanile non ha smesso di crescere, neanche quando sono migliorati i dati del mercato del lavoro degli over 50. Ecco allora che la decontribuzione 4.0 dovrebbe essere una misura selettiva, esplicitamente dedicata ai giovani, ma ugualmente fruibile dalle imprese e, nella speranza del Governo, similare a quella del 2015 per capacità di movimentazione del mercato del lavoro, anche in termini di trasformazione dei contratti e non solo di vere e proprie nuove assunzioni.
Vi è però una differenza sostanziale tra la possibile misura 2018 e quella approvata ai tempi del Jobs Act: questa già esiste nel nostro ordinamento! È infatti per tutti possibile stipulare con un giovane tra i 15 e i 30 anni un contratto di apprendistato, ovvero una particolare forma di contratto a tempo indeterminato che prevede una rilevante componente formativa e una pressione contributiva di estremo vantaggio per il datore di lavoro. Sono oltre 420.000 i rapporti di lavoro regolati da questa tipologia contrattuale, in crescita annua del 30% da 2016 ad oggi, ovvero proprio dalla fine della decontribuzione del 2015 che ha determinato un massiccio spostamento delle nuove attivazioni di contratti dall’apprendistato verso l’ordinario tempo indeterminato.
Perché allora il Governo invece di scommettere su uno strumento che pare funzionare bene sta meditando di spiazzarlo nuovamente replicando la decontribuzione di cui l’apprendistato già gode (senza bisogno di alcuna risorsa aggiuntiva a bilancio!) su una sorta di contratto a tutele crescenti dedicato ai giovani?
Non sentiremo una sincera risposta a questa domanda né dalla politica né dalla rappresentanza della grande impresa, alleate nella costruzione della soluzione che va prospettandosi nella prossima legge di stabilità. Per la prima la spiegazione è da ricercarsi nella affannosa ricerca di esiti di breve periodo, tanto più ora che i soldi sono pochi e le elezioni sono vicine: è opportuno incentivare i contratti a tempo indeterminato perché sono strumenti che le imprese già conoscono e che preferiscono per semplicità e minori adempimenti. Per la seconda sono proprio questi minori adempimenti a rendere più appetibile il contratto a tempo indeterminato rispetto all’apprendistato. In cosa consistono i “minori adempimenti”? Nella assenza della componente formativa, obbligatoria nel contratto di apprendistato, assente nelle tutele crescenti.
Ecco quindi il paradosso di un Paese, il nostro, nel quale si parla di istruzione, competenze, formazione continua dalla mattina alla sera, ma che nel momento della scelta preferisce sempre la soluzione più comoda, la meno faticosa, il palliativo in luogo della cura. In altre parole, si muove nell’ottica del breve periodo, una sorta di masochistico carpe diem: vanno bene gli incentivi, altro che un difficile intervento sul nodo della transizione scuola-lavoro. Domani chissà… ma dopodomani è così garantita la sconfitta di tutte le parti in causa e, quindi, del nostro Paese. Sconfitta dello Stato, schiacciato nel bilancio da coriandoli di spese una tantum dissociate dagli investimenti; delle imprese, che continuano a non individuare nella persona il vero fattore competitivo nell’economia della quarta rivoluzione industriale; degli stessi giovani, guidati sulla strada della occupabilità di breve periodo, un sentiero che solitamente finisce nel baratro della disoccupazione nel lungo termine.
Presidente ADAPT
*pubblicato anche su La Verità, 10 settembre 2017