L’hanno chiamato il Jobs Act dei francesi, ma la Loi travail del Primo Ministro Valls ha ben poco in comune con la “rivoluzione copericana” annunciata da Matteo Renzi. Conosciuta in Italia solo per le ampie proteste di popolo e di piazza che ha suscitato, in particolare da parte di giovani e sindacati, la riforma francese del lavoro presenta diversi aspetti interessanti e non pochi paradossi se confrontata al caso italiano.
Il primo riguarda l’oggetto principale della riforma. Mentre il Jobs Act italiano interviene sulle tipologie di contratto di lavoro, cedendo in parte al vizio degli ultimi anni di continui cambiamenti della normativa relativa, la riforma francese interviene direttamente sulle fonti del diritto del lavoro, dando maggior centralità alla contrattazione aziendale su tuti gli aspetti della gestione del rapporto di lavoro. In questa opposta prospettiva sta tutta al differenza di visione tra i due provvedimenti. Da un lato l’idea che sia la legge nazionale, uguale per tutti, a regolare i rapporti di lavoro; dall’altro l’idea che ci sia bisogno dell’intervento delle parti sociali, in chiave sussidiaria e di prossimità, per decidere degli aspetti più importanti della vita dei lavoratori e della organizzazione d’impresa a partire dal nodo ineludibile della persistente attualità dell’orario di lavoro.
Una visione che inverte paradossalmente le tradizioni, con una Francia che si rivela più sussidiaria e partecipativa rispetto all’approccio centralista italiano che ha fatto della disintermediazione una delle sue principali bandiere. Da sempre i legislatori d’oltralpe, forti di una amministrazione statale fortemente burocratizzata, sono stati più restii a sviluppare un modello sussidiario e pluralista che lasciasse più autonomia alle parti in causa. Al contrario in Italia l’architettura del sistema di relazioni industriali si è sin qui ispirata alla tradizione anglosassone con un chiaro impatto sulle fonti di regolazione dei rapporti di lavoro. La mancata attuazione dell’art. 39 della costituzione è stata la premessa di questa visione. Con il Jobs Act italiano e la Loi Travail francese sembra invece che vi sia stato un cambio di rotta.
È possibile trovare una spiegazione di questo guardando all’ampia riflessione sulla trasformazione del lavoro che si sta portando avanti in Francia ormai da oltre un anno, e che ha portato alla stesura e alla diffusione di diversi rapporti di analisi e studi di impatto che in italia sono mancati fatta eccezione per il Libro Bianco sul mercato del lavoro di Marco Biagi di inizio secolo.
La coscienza dei nuovi fenomeni del mondo del lavoro, dei loro tempi rapidi e della loro imprevedibilità ha fatto maturare nel Legislatore la convinzione che un blocco monolitico di norme nazionali non fosse la strada migliore per affrontare in termini di adattabilità i cambiamenti socio-economici in atto.
Il secondo aspetto interessante è quello delle politiche attive del lavoro. La Loi travail introduce il “conto personale di attività”, uno strumento universale di tutela che accompagna i lavoratore durante i passaggi tra un lavoro e l’altro senza far sì che la transizione significhi la perdita di diritti. Concretamente questo avviene attraverso una corrispondenza tra diritti e “punti” del conto personale.
Un approccio quindi che ha come perno non un sistema di politiche nazionali ma la persona stessa del lavoratore, concepito modernamente come colui che più che un posto di lavoro intraprende un percorso, che lo porta a cambiare spesso, alla ricerca di nuove competenze, nuovi stimoli e nuove opportunità. Anche in questo caso non è difficile notare lo scarto con il Jobs Act, che accentra, senza ancora riuscire a farle partire concretamente, le politiche attive sotto l’ombrello nazionale della nuova ANPAL ed offre deboli strumenti per affrontare i passaggi di carriera, con un assegno di ricollocazione finanziato solo da poche decine di milioni di euro.
Tutto ciò considerato, non si può dire che la riforma francese non presenti alcun difetto. Diversi nodi restano ancora aperti, in particolare è ancora difficile capire l’impatto che le diverse modifiche intervenute sul testo dopo le proteste degli ultimi mesi avranno sulla versione finale. Il rischio è quello di una Loi travail in parte indebolita, ad esempio sul fronte dei licenziamenti, e che non riesce quindi a superare alcuni dualismi cronici del mercato del lavoro francese. Qualunque sia la sorte del dettaglio normativo, comparando le diverse visioni delle due riforme non può che scaturire un interesse particolare per l’approccio francese, che colpisce per modernità e innovazione, quasi copiando alcune delle intuizioni che Marco Biagi ebbe con l’idea di uno Statuto dei lavori, forse troppo moderna vent’anni fa, e della contrattazione di prossimità.
Senza perdersi nell’utopia di ricondurre tutti i rapporti al lavoro subordinato, in una anacronistica distinzione tra lavoratore dipendente e indipendente, l’approccio francese va oltre, mettendo al centro della dimensione contrattuale l’autonomia collettiva. Questo consente una notevole agilità nell’affrontare e risolvere le problematiche che volta per volta sorgono nei diversi contesti produttivi, consapevoli che spesso la realtà stessa del mondo del lavoro è in grado di interpretarsi meglio rispetto alla teoria del legislatore.
C’è un ultimo paradosso da sottolineare, più di carattere socio-politico e riguarda la genesi delle due riforme. Da un lato abbiamo il Jobs Act, annunciato come un grande piano di politica industriale e investimenti sui settori chiave, sulla scia di quanto fatto in USA dall’amministrazione Obama, e che si è pian piano rivelato invece un intervento unicamente sugli aspetti regolatori del diritto del lavoro. In un clima tutto sommato tranquillo, senza particolare proteste di piazza, il disegno originario della riforma si è pian piano auto-ridotto.
In Francia invece abbiamo un disegno di legge che interveniva sì inizialmente sugli aspetti contrattuali, in particolare sul licenziamento, ma che, grazie alla ampie proteste, ha visto crescere la centralità della dimensione sussidiaria, pur attaccata dai manifestanti. Risulta quindi una eterogenesi dei fini che porta entrambi i disegni iniziali ad essere rivisti, in maniera più o meno considerevole, dipingendo scenari diversi rispetto al bozzetto iniziale.
Sospendendo quindi qualsiasi giudizio sulla efficacia delle due diverse riforme, è importante osservare come la sfida della trasformazione del lavoro possa essere affrontata con due sguardi differenti: il primo sussidiario, aperto agli attori stessi del mondo del lavoro, il secondo più centralista e statalista nella convinzione che un quadro regolatorio univoco sia lo strumento necessario per risolvere i dilemmi del cambiamento. Solo il tempo ci dirà quale approccio sarà stato vincente
Coordinatore scientifico ADAPT
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Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press
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