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Bollettino ADAPT 27 settembre 2022, n. 32
Come noto, da circa due mesi, nell’agone lavoristico – fra dottrina e stampa specializzata – è finito il d.lgs. 27 giugno 2022, n. 104, alias decreto “trasparenza”, di attuazione della direttiva UE 2019/1152, «relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione europea».
Omettendo, consapevolmente, ogni appunto ulteriore su generali – quanto innegabili – criticità e aporie piovute in capo agli operatori del diritto (per tutti, cfr. la circolare della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, 11 agosto 2022, n. 10), le osservazioni che seguono intendono invece concentrarsi sui riflessi del decreto in parola rispetto al “tempo di lavoro”. In particolare, la riflessione si incentra sul “potere distributivo” ordinariamente ascritto al datore di lavoro, con l’obiettivo di verificare se in effetti, alla luce del dettato normativo, le dovute – formalmente – informazioni circa l’orario di esecuzione del rapporto «non incid[ono] sulla flessibilità richiesta dalle imprese, ma consent[ono] ai prestatori maggiore consapevolezza, che si traduce in forza contrattuale» (cfr. A. Zilli, Decreto Trasparenza: Gli obblighi informativi ieri e oggi (Intanto è già domani), giustiziacivile.com, 7 settembre 2022); anche perché, expressis verbis (Capo I art. 1 «1. Lo scopo della presente direttiva è migliorare le condizioni di lavoro promuovendo un’occupazione più trasparente e prevedibile, pur garantendo nel contempo l’adattabilità del mercato del lavoro. […]»), nel solco di un approccio mezzi/fini “bilanciato” tipico del diritto eurounitario, proprio questo pare essere l’obiettivo perseguito dalla direttiva.
Sicché, meglio indagando se, a monte, il diritto dell’Unione richieda, o meno, un “ingessamento” del rapporto subordinato mediante contratto e/o documenti che predeterminano, con effetto di obbligazione (art. 1173 c.c.), la collocazione dell’orario di lavoro, l’analisi non può che muovere da alcune considerazioni sul dato testuale.
E a bene vedere, nel codificare il contenuto “minimo” dell’onere di informazione, alla lettera l) paragrafo 2 art. 4 della direttiva, per le realtà in cui «l’organizzazione del lavoro è interamente o in gran parte prevedibile», il diritto del prestatore viene limitato alla conoscenza della «durata normale della giornata o della settimana di lavoro […] nonché eventuali condizioni relative al lavoro straordinario e alla sua retribuzione e, se del caso, eventuali condizioni relative ai cambi di turno», senza, perciò, postulare alcuna necessità di edurre il medesimo circa una specifica allocazione temporale (dalle/alle) delle 8 ore giornaliere ovvero 40 (o meno) settimanali di lavoro.
Puntualizzazione che, per verità, neppure si esige laddove «la forma di organizzazione dell’orario di lavoro e la sua ripartizione» sia, ex art. 4 paragrafo 2 lettera m), «interamente o in gran parte imprevedibile», posto che, anche in tale evenienza, la comunicazione viene circoscritta «all’ammontare delle ore retribuite garantite», «alle ore e ai giorni di riferimento [ide est, ex art. 2 lettera b), «le fasce orarie»] nei quali può essere imposto al lavoratore di lavorare» e al «al periodo minimo di preavviso a cui il lavoratore ha diritto prima dell’inizio di un incarico».
In definitiva, coerentemente al nostro ordinamento, dove, da sempre, i limiti all’orario di lavoro risultano necessari ad assicurare, ex art. 36 Cost., un’esistenza libera e dignitosa (S. Rozza, Tempo di lavoro e tempo della persona: l’adeguamento del lavoro all’essere umano, in S. Bellomo, A. Maresca, (a cura di), Tempi di lavoro e di riposo, Sapienza University Press, 2022, p. 89) e il tempo “libero”, in ottica “ricreativa” o di occupazione “ulteriore”, assume una specifica importanza (così, anche Cass., 3 settembre 2018, n. 21562, “Ragione della decisione”, sub 7.1), il legislatore dell’Unione sembra intenzionato ad agire maggiormente sul profilo quantitativo del tempo professionale, lasciando pressoché intatto il già citato potere datoriale di assegnazione ovvero di ripartizione della prestazione lavorativa. Anche perché, come osservato in giurisprudenza, considerate le peculiarità della relazione etero-diretta e il suo naturale inserimento all’interno di una struttura organizzata (art. 2086 c.c.), estendere il paradigma normativo della prestazione a tempo parziale (artt. da 4 a 12 d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81), dove «la programmabilità del tempo libero assume carattere essenziale che [né] giustifica la immodificabilità dell’orario» (Cass., 31 marzo 2021, n. 8958, “Considerato che”, sub 21), «si tradurrebbe nella negazione del diritto dell’imprenditore di organizzare l’attività lavorativa» (Cass., 3 novembre 2021, n. 31349, “Considerato che”, sub 6).
Come detto, un risultato tutt’altro che atteso dalla direttiva, all’interno della quale, di fatti, rispetto al tempo di lavoro, nessun passaggio appare, in tal senso, “esasperato”, esprimendosi, anche nelle premesse, in termini di «livello minimo di prevedibilità» (Considerando 30; nonché rubrica art. 10) oppure ponendo l’accento sui lavoratori in situazione di particolare vulnerabilità, proprio perché, a proposito del profilo quantitativo, «non hanno una quantità garantita di lavoro» (Considerando 12).
Per quanto sinteticamente precede e assunta l’identica formulazione adoperata dal legislatore nazionale (in particolare, art. 4 c. 1 d.lgs. 27 giugno 2022 cit.), sembra, quindi, doversi escludere che i nuovi format contrattuali o le aggiornate informative, predisposte all’uopo dal datore di lavoro, debbano contenere «puntuale indicazione della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno» (art. 5 d.lgs. 15 giugno 2015 cit.).
Tanto che, nel solco della ricostruzione sin qui operata, sembra inoltre porsi la recentissima – quanto attesa – prassi ministeriale (circ. Min. lav., 20 settembre 2022, n. 19), la quale, confermando che la ratio della riforma è «quella di ampliare e rafforzare gli obblighi informativi, ma tale operazione di ampliamento e di rafforzamento deve essere calata nella concretezza del rapporto di lavoro», al punto 1.3 “Orario di lavoro programmato”, si limita a precisare che «generalmente rientrano nella definizione del lavoro prevedibile anche le ipotesi di lavoro a turni e di lavoro multi-periodale: in tali casi sarà sufficiente indicare che il lavoratore viene inserito in detta articolazione oraria e rendere note le modalità con cui allo stesso saranno fornite informazioni in materia».
In sostanza e a titolo esemplificativo, al fine di ottemperare alla legge e non incorrere in illecito amministrativo, al datore di lavoro sarà sufficiente comunicare gli orari di apertura dell’azienda o i possibili turni lavorativi in cui si organizza “normalmente” la propria attività e all’interno dei quali, di conseguenza, il titolare del contrato manterrà – eccezion fatta, come già evidenziato, per i lavoratori part–timer – la prerogativa tipica dello ius variandi temporale.
Anche se, è bene ricordarlo in conclusione, questa particolare estrinsecazione del potere direttivo (art. 2094 c.c.) potrà essere incisa, più o meno intensamente, a seconda del mezzo informativo prescelto per adempiere ai nuovi obblighi di informazione: se trasmessi mediante contratto individuale, questi costituiranno una vera e propria limitazione del diritto aziendale testé, proprio in funzione dei perimetri individuati nell’accordo (sui vincoli pattizi inerenti alla distribuzione oraria della prestazione, Cass., 3 novembre 2021cit., “Considerato che”, sub 6); se, invece, consegnati mediante informativa, saranno comunque apprezzabili, in sede di contenzioso, nella verifica giudiziale circa la “buona fede” e “correttezza” datoriale nell’esecuzione del contratto posto che, persino consentendo «al datore di lavoro, in relazione a sue specifiche esigenze, di organizzare l’attività in turni di servizio [o altra modalità e] pur in assenza di disposizioni specifiche di legge o di contratto, questi devono essere portati a conoscenza dei lavoratori con un ragionevole anticipo così da consentire loro una programmazione del tempo di vita» (Cass., 3 settembre 2018 cit., “Ragione della decisione”, sub 7.1 e giurisprudenza ivi citata).
Federico Avanzi
ADAPT Professional Fellow