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In occasione della campagna elettorale per le primarie interne al partito democratico statunitense, l’opinione pubblica americana ha iniziato a interrogarsi sulla proposta di Andrew Yang, uno dei candidati, di istituire il c.d. Freedom Dividend, un reddito universale
garantito a ciascun cittadino statunitense maggiorenne che, a prescindere dalla propria condizione economica e dalla disponibilità a lavorare, riceverebbe $1,000 dollari al mese.
Alla base della proposta del Freedom Dividend, gli argomenti sono quelli conosciuti con le esperienze di Universal Basic Income già in corso o già concluse. Da un lato, vi sarebbe la minaccia di una disoccupazione tecnologica, tipica di una visione disruptive del progresso che cancellerebbe milioni di posti di lavoro. Dall’altro lato, l’UBI risponderebbe all’urgenza di sprigionare risorse ed energie di lavoratori che, forti di un paracadute sempre aperto, acquisterebbero forza contrattuale con i datori di lavoro; scommetterebbero sulle loro stesse idee imprenditoriali; sarebbero liberi di dedicarsi ad attività artistiche, lavoro di cura e volontariato.
Le risorse per finanziare il Freedom Dividend proverrebbero da una Value Added Tax (VAT) imposta sulla produzione di beni o servizi, una versione ridotta (la metà) dell’europea IVA che garantirebbe gettito fiscale anche in un futuro nel quale sarebbe impossibile riscuotere le imposte sul reddito di lavoratori-robot.
Inoltre, ciascun cittadino avrebbe il diritto di scegliere se percepire i benefit del Welfare tradizionale o i mille dollari di cui sopra. Un simile aut-aut richiama proposte di sussidi pubblici risalenti già al Novecento. Milton Friedman, ad esempio, in Capitalismo e libertà (1972), teorizzava la negative income tax, secondo la quale tutti coloro con un reddito inferiore a una data soglia avrebbero avuto diritto a un «aiuto nella formula più utile all’individuo, cioè in contanti». Tale sussidio avrebbe avuto carattere generale e sarebbe stato sostitutivo delle «miriade di misure speciali oggi vigenti».
Qualche anno dopo a proporre un reddito di base come alternativa al Welfare State, è il Collectif Fourier, di cui faceva parte Philippe Van Parijs, uno dei massimi teorizzatori mondiali del Basic Income. In Une reflexion sur l’allocation universelle del 1984, si trovano scritte parole immediatamente comprensibili e suggestive: «sopprimete le indennità di disoccupazione, le pensioni pubbliche, i salari minimi, le esenzioni […] le borse di studio […] ma versate ogni mese a ciascun cittadino una somma sufficiente per coprire i bisogni fondamentali […]. Contemporaneamente deregolamentate il mercato del lavoro […] Sopprimete l’obbligo di ritirarsi dal lavoro ad un’età determinata. Fate tutto ciò. Dopodiché osservate cosa accade».
Un giudizio sulla capacità del Freedom Dividend, dunque, non può prescindere da una comparazione tra i costi dello Stato sociale e quelli dell’erogazione del reddito universale e, soprattutto, tra i benefici già oggi effettivamente percepiti dalla popolazione, tanto più quella più fragile, e i mille dollari promessi.
La proposta di un Universal Basic Income non è inedita (si pensi ai casi di Finlandia Alaska e Stockton) ma non può passare in silenzio che l’UBI è divenuto argomento elettorale per la Presidenza della più grande potenza mondiale. Salvi i dubbi sulla sostenibilità economica, sociale e morale dell’idea – che Yang dice essere «né a sinistra, né a destra, ma avanti» – va riconosciuta l’esistenza di un fenomeno che, seppur stia iniziando a diffondersi tra il grandissimo pubblico solo da poco, potrebbe diventare centrale nell’ambito della grande trasformazione del lavoro in atto.
Il reddito di base, infatti, è un attacco frontale al modello di protezione sociale tipico della società industriale. È una provocazione che – come qualcuno ha già iniziato a notare – mette in discussione l’idea che il lavoro salariato sia la «pietra angolare del sistema di sicurezza sociale e delle tutele per la persona». Non è sufficiente superare – sempre a fatica – il paradigma della subordinazione giuridica ma occorre riflettere su una nuova concezione di lavoro, assunto che lo «lo spazio del lavoro» – inteso secondo le lenti del Novecento – è ormai più ristretto dello spazio del cittadino». Occorre, cioè, allargare lo sguardo a tutte quelle attività socialmente utili che non sono riconosciute da un contratto, né sono retribuite.
Diventa sempre più imprescindibile, infatti, porre attenzione a chi si prende cura della casa, dei figli, degli anziani, chi svolge attività di volontariato; è giunto il momento, cioè, di porre attenzione a chiunque, anche al di fuori del lavoro produttivo, svolge – richiamando l’art. 4 della Costituzione italiana, comma secondo – «secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o funzione che concorr[a] al progresso materiale e spirituale della società». È perché consapevoli di una tale urgenza che occorre progettare soluzioni nuove, a meno che non si voglia aderire, più o meno convintamente, più o meno entusiasticamente, all’idea di un reddito di base universale.
ADAPT Junior Fellow