Un Paese che invecchia più velocemente di tanti altri e che allo stesso tempo non riesce a fornire sufficienti occasioni di lavoro ai più giovani. Questa è l’Italia e questa è la conseguenza, in termini concreti, del fatto che poco più di un italiano su due in età di lavoro ha una occupazione. In totale sono solo 37 su 100 gli italiani e i residenti che lavorano e che contribuiscono a mantenere non solo se stessi e altre due persone, ma anche l’intero stato sociale.
Non sorprende, in questo amaro scenario, che si affaccino periodicamente proposte che sembrano dettare un aut-aut per il futuro e la sopravvivenza del nostro Paese: o i padri o i figli. Da ultimo l’Inps che ha proposto un corposo piano di riforma che, tradotto nella sostanza, si propone di dare la possibilità agli over 55 di andare in pensione precedentemente, lasciando intendere che questo lascerà spazio ai giovani. Idea suggestiva, e che a un primo ascolto sembra essere ragionevole e muoversi nella direzione di un ricambio generazionale del mercato del lavoro italiano, ma che, se inserita nell’attuale contesto economico e demografico, appare poco lungimirante. L’età media della popolazione italiana è, infatti, di 45 anni e le proiezioni demografiche ci dicono che nei prossimi anni questo dato è destinato ad aumentare e con esso il numero degli over 65. Oggi il rapporto tra soggetti in età da lavoro (15-64 anni) e over 65 è di quattro a urlo, nei prossimi anni sarà di due a uno.
E possibile quindi pensare di fare a meno dei lavoratori over 55? Noi crediamo che la vera soluzione sia invece quella dell’inclusione e dell’invecchiamento attivo. E cioè creare un mercato del lavoro in cui vi siano le condizioni in cui sia i giovani sia gli anziani possano lavorare aiutando, così, ad accrescere il numero degli occupati nel nostro Paese e partecipando a una maggiore creazione di ricchezza e a una maggiore contribuzione al sistema pubblico di welfare. Solo aumentando gli occupati aumenteranno infatti le risorse necessarie per sostenere i nuovi bisogni sociali e i crescenti costi di una società che invecchia: spese sanitarie, previdenziali e assistenziali in primis.
La priorità italiana non è allontanare persone che ancora possono dare molto alla società e al lavoro. I costi del welfare non potranno del resto essere coperti senza l’aumento di coloro che ne sostengono i costi, e quindi dei lavoratori che pagano i contributi. A ciò si aggiunga che l’evoluzione tecnologica e i nuovi sistemi produttivi consentono un’ampia sostituzione di mansioni da parte delle macchine. Per questo non è affatto scontato che i posti di lavoro che si liberano oggi e che a lungo sono stati salvaguardati da tutele difficilmente scavalcabili andranno domani a vantaggio di nuove assunzioni di giovani.
Il limite non è, però, solo quello dell’inconsapevolezza dello scenario e delle sue previsioni. È evidente anche un giudizio “economicistico” che guida il ragionamento e le proposte messe sul tappeto. I lavoratori “anziani” sarebbero, non tutti chiaramente, demotivati e improduttivi, per questa ragione è un vantaggio per tutti se vengono allontanati dal lavoro. Concetti che appaiono lontani anni luce da quanto affermato da Papa Francesco sabato scorso, proprio di fronte ai dipendenti dell’Inps, quando ha ricordato che «il lavoro non può dunque essere prolungato o ridotto in funzione del guadagno di pochi e di forme produttive che sacrificano valori, relazioni e princìpi».
Se il lavoro è davvero relazione, e strumento con il quale si costruisce e si afferma la dignità della persona, l’obiettivo deve essere quello (anche economico) di consentire a tutti di lavorare e di avere un lavoro dignitoso, in linea con le proprie capacità e inclinazioni. Per questo l’ipotetica sostituzione tra anziani e giovani appare una scappatoia fin troppo semplice, quasi semplicistica. Per questa via si sfuggirebbe alla sfida di costruire un moderno sistema di politiche attive del lavoro, che pure è il cuore, non ancora implementato, del Jobs Act renziano. Un sistema di formazione, presa in carico, ricollocazione in cui si possa far incontrare domanda e offerta, indipendentemente dall’età di chi cerca un impiego. Pensiamo solo a quanto sono poco diffuse le pratiche di riqualificazione professionale e di trasmissione delle competenze richieste dal mercato del lavoro e, allo stesso modo, quanto oggi siano necessari nei luoghi di lavoro le figure dei maestri, per esempio nell’attuazione di strumenti come l’apprendistato. Per fare un solo esempio: un muratore non potrà certo stare in cima a una impalcatura a sessant’anni, ma prima di raggiungere la meritata pensione potrà lavorare in una scuola edile come maestro di mestiere.
La strada maestra è dunque quella, più impervia e complessa, di un “welfare della persona”, che non sia semplicemente un tassello di un più grande disegno e progetto economico. Il primo passo su questa via è quello di conoscere il contesto e le sue dinamiche, senza temere il futuro o tentare di negarlo o allontanarlo, ma accogliendolo come una nuova opportunità di rinnovamento.
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press
@francescoseghez
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
* Pubblicato anche in Avvenire, 13 novembre 2015 con il titolo Ma senza «anziani» il lavoro non cambia.