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Nella quotidianità del vissuto aziendale non costituisce certo eccezione rinvenire una moltitudine di “prassi” e situazioni che, pur coinvolgendo datore e dipendenti, non trovano specifica regolamentazione nella legge o negli accordi collettivi.
Una fattispecie particolarmente interessante riguarda la ripresa anticipata dell’attività lavorativa del dipendente in caso di malattia e della corretta procedura, intesa come doveri ascrivibili alle parti, da seguire.
A rendere particolarmente intrigante la questione sono i contrapposti orientamenti espressi dall’ente di previdenza erogatore delle prestazioni (Inps) prima e dalla giurisprudenza (Sezioni Unite Civili) poi, sull’obbligo in capo al lavoratore di rettificare la data prognosi inizialmente prevista nel certificato medico.
Per comprendere appieno la delicatezza della questione è necessario declinare la nozione di malattia all’interno del contesto lavoristico ove la tutela non riguarda qualsiasi infermità idonea a pregiudicare la salute del soggetto (art. 32 Costituzione) ma involge esclusivamente quello stato patologico tale da determinarne una condizione di incapacità lavorativa.
Quindi nel valutare le contrapposte e summenzionate opinioni occorre muovere da un concetto di precipua importanza ossia che il certificato predisposto dal medico statuisce (o almeno dovrebbe) una impossibilità assoluta a svolgere le mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto.
Con la circolare numero 79 del 2 maggio 2017 l’ente previdenziale esprime con chiarezza la sua posizione andando a delineare, in via amministrativa, diritti e doveri delle parti in situazioni di guarigione anticipata.
Lato lavoratore essendo il certificato medico, di fatto, una richiesta di prestazione (almeno in buona parte dei casi) l’Inps ne fa innanzitutto una questione economica imponendo allo stesso una rettifica sul quantum richiesto in termini di indennità da erogare.
Più interessante è l’ulteriore ragionamento seguito dall’istituto che, basandosi sulle responsabilità in materia di salute e sicurezza attribuibili alle parti, estende il precetto testé menzionato anche lato datore.
Secondo l’Inps infatti il combinato disposto dall’articolo 2087 c.c. che per inciso impone all’imprenditore la tutela dell’incolumità psico-fisica dei dipendenti, sanzionando in modo aperto l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele necessarie in funzione della concreta realtà aziendale e l’articolo 20 D.L.gs. 81 del 2008 che obbliga ciascun lavoratore a prendersi cura della propria salute, negherebbe al datore di consentire la ripresa dell’attività lavorativa in presenza di un certificato con prognosi ancora in corso.
A poco più di un anno di distanza, autorevole e diametralmente opposto orientamento viene espresso, en passant, dalle Sezioni Unite Civili che, con ordinanza numero 12568 del 2018, si trovano a dirimere l’annosa quaestio degli effetti del licenziamento “comunicato anzitempo” per superamento del periodo di comporto.
Invero nel caso vagliato dai supremi giudici il mancato spirare del periodo di comporto ex 2110 c.c. risultava pacifico. Il lavoratore, tuttavia, si presentava ugualmente in azienda per riprendere servizio prima dello scadere dei termini, ma la società rifiutava di ricevere la prestazione in difetto di certificato attestante l’avvenuta guarigione.
Il comportamento datoriale, perfettamente aderente alla circolare Inps, veniva al contrario censurato dalla Corte poiché “il prestatore non ha l’onere di munirsi di tale certificato, non esistendo (nel settore creditizio) alcuna norma di legge in tal senso”.
A suffragio di un tale convincimento, le Sezioni Unite offrono la propria interpretazione della medesima base giuridica (T.U. Sicurezza) presa a riferimento dall’Istituto previdenziale, asserendo che un onere del genere (rettifica della prognosi) non è ricavabile neppure dall’art. 41, comma 2, D.L.gs. 81 del 2008, il quale si limita a prevedere e regolare la sorveglianza sanitaria, nell’ambito della quale la ripresa dell’attività lavorativa non è condizionata a tale rettifica.
Al di là della reciproca ed evidente antitesi è interessante premettere ciò che al contrario accomuna i “protagonisti” della vicenda ossia che nessuno ha la forza giuridica necessaria per estendere/imporre il proprio pensiero sull’altro o sui terzi.
Invero, se le prassi amministrative a mezzo circolari possono considerarsi vincolanti al più per il personale interno all’ente che le produce, nei modelli di ordinamento giuridico di civil law, come quello italiano, nemmeno le decisioni delle Sezioni Unite oltrepassano il singolo caso di specie sul piano dell’efficacia del principio di diritto enunciato.
A questo punto, nello stimolante tentativo di suggerire la prassi più idonea a tutelare gli interessi di entrambe le parti coinvolte, anche in considerazione della potenziale responsabilità civile e penale a cui presta il fianco il datore, appare assolutamente da preferire la tesi sostenuta dall’Inps. Se è vero, infatti, che la giurisprudenza è concorde nel prescrivere allo stesso datore di adottare tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psico-fisica del lavoratore, appare palesemente contraria a detto obbligo ogni condotta che consenta l’esecuzione di mansioni in presenza di certificato medico che attesti invece una specifica impossibilità in tal senso.
Federico Avanzi