Il settore metalmeccanico sta vivendo negli ultimi mesi un andamento altalenante, con momenti di crescita seguiti da brusche frenate. Il primo trimestre di quest’anno ne è un esempio, con un +4,5% di produzione a gennaio e un -1,6% a marzo. Se complessivamente il saldo di questo fattore è positivo continua ad essere negativo quello del numero degli occupati. Sono 270.000 i posti di lavoro persi nel settore tra il 2007 e il 2015, e il trend sembra essere oggi quello di una frenata del calo (con “solo” 13mila occupati in meno nel 2015 rispetto all’anno precedente), ma non certo di una tendenza al recupero. Dai dati presentati dall’Indagine Congiunturale di Federmeccanica appare chiaramente quella che negli Usa è ormai un punto fermo negli scenari di molti osservatori: la maggior parte dei posti persi durante la crisi sono persi per sempre.
E per capirlo basta confrontare l’andamento occupazionale con l’andamento della produzione. Di certo non possiamo festeggiare i risultati degli ultimi anni, ma il calo della produzione si è frenato ed è sostanzialmente piatto dal 2013 (soprattutto grazie al settore automotive), mentre gli occupati continuano a calare. Le imprese che hanno raggiunto migliori performance sono al massimo riuscite ad riassorbire molti lavoratori in cassa integrazione, che negli ultimi mesi è ripresa comunque a crescere. Un discorso simile, anche se più complesso perché riguardante molti fattori, può essere fatto per la produttività e la sua modesta crescita negli ultimi tempi. Se quindi aumenta la produzione e la produttività senza nuove assunzioni, è probabile che non siano più necessari i lavoratori di un tempo per ottenere lo stesso output. E il vero paradosso è che l’auspicabile aumento di produttività necessario per la sostenibilità del sistema non farà altro che diminuire il numero di lavoratori, in un mercato in cui la domanda per i beni manifatturieri è in calo.
Un recente paper di un economista di Harvard, dal titolo emblematico “Premature Deindustrialization”, mostra però con diverse evidenze che non stiamo certo assistendo ad una dinamica nuova: l’incidenza dei lavoratori nella manifattura sul totale degli occupati è in costante calo, in Italia il picco è stato nel 1980, da allora calo. La crisi quindi, secondo l’autore, non avrebbe fatto altro che accelerare un processo in atto già ben prima dell’impatto della globalizzazione e dell’automazione. In Italia questo ha fatto sì che molti dei processi di ristrutturazione aziendale per cercare di sopravvivere alla bufera sono stati incentrati sia su un uso massiccio degli ammortizzatori sociali, sia su delocalizzazioni e, quando sono stati effettuati investimenti, questi premiano più nuova tecnologia che nuovo lavoro.
Non si tratta dell’allarmismo di chi crede che i robot ruberanno ogni lavoro, nessuna condanna alla disoccupazione. Da un lato infatti diversi studi mostrano come il passaggio alla nuova Industria 4.0 potrà avere un positivo, anche se molto moderato, impatto occupazionale, dall’altro più la manifattura è avanzata più questa genera domanda di lavoro nei servizi ad essa connessa.
Secondo uno studio dell’Institute for Employment Research nella sola Germania la nuova manifattura digitale potrà distruggere ulteriori 490.000mila posti di lavoro ma crearne 430.000. I posti a rischio sono quelli più tipici e diffusi all’interno del settore ossia gli operatori di produzione e di manutenzione ordinaria mentre, all’interno dell’impresa stessa, aumenterà la domanda per tecnici informatici specializzati, ingegneri dell’automazione e altri profili molto elevati. Sul fronte dei servizi legati alle imprese è probabile che nasceranno nuovi lavori connessi alla gestione di tutto il ciclo di vita dei beni, oltre alla fase di produzione, come ad esempio gli analisti di dati, oltre che a tutto l’indotto connesso ad imprese manifatturiere avanzata.
Come in tutti i casi in cui si tenta di prevedere il futuro a partire dai dati presenti è difficile non sbagliarsi e non sono pochi i fattori che possono sfuggire. Ma l’urgenza oggi è quella di smettere di pensare che i 270.000 lavoratori che hanno perso un posto di lavoro negli ultimi 7 anni potranno essere interamente riassorbiti. Questo atteggiamento non potrà che condurre ad un conservatorismo miope che fa dell’attendismo nient’altro che una agonia evitabile. Il vero problema urgente, che è problema non solo economico ma politico, è aiutare la ricollocazione di chi ha perso un lavoro, senza illuderlo della possibilità di un oggi improbabile ritorno alla postazione che occupava qualche anno fa, che oggi si trova o nell’est Europa o nelle mani di un robot.
Formazione, riqualificazione e tutele sembrano quindi essere priorità per l’oggi e per il domani, così come è una priorità assoluta quella di creare un ambiente normativo, fiscale e infrastrutturale che consenta a nuovi servizi e nuovi lavori di nascere, grazie a investimenti in innovazione. È ormai risaputo che è proprio la concentrazione di innovazione che crea lavoro, sia in sé che indotto. Possiamo aspettare il Godot dei lavori che furono, o possiamo contribuire a costruirne di nuovi, lasciando spazio a chi li può creare. A noi la scelta.
*pubblicato anche in Il Foglio, 15 giugno 2016
Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT
Direttore ADAPT University Press