Con la sentenza 22 febbraio 2016, n. 3422 la Suprema Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema dell’esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro.
All’attenzione dei giudici di legittimità è stata portata, ancora una volta, una vicenda che trae origine dalla riorganizzazione aziendale dell’ente Poste Italiane S.p.a., promossa con il CCNL 26.11.1994 ed il successivo accordo integrativo del 23.05.1995.
Al centro del nuovo assetto negoziale si collocava la complessiva rivisitazione del sistema di classificazione ed inquadramento del personale, da quel momento suddiviso in quattro aree funzionali (area di base; area operativa; area quadri 2° livello; area quadri 1° livello); ciò comportò nei fatti una ri-collocazione del personale entro queste nuove “maglie”.
Ed è questo il caso del lavoratore protagonista della vicenda processuale in esame, cui i giudici dei precedenti gradi di giudizio avevano già riconosciuto l’effettivo demansionamento con relativo risarcimento del danno; tesi oggi confermata dalla stessa Corte di Cassazione.
Egli nel 1999 venne infatti adibito a mansioni riconducibili all’“area di base”, sul presupposto della soppressione delle precedenti mansioni di assunzione, al più riferibili – secondo il criterio della equivalenza professionale imposto dall’art. 2103 Codice civile nella sua versione statutaria – alla nuova “area operativa”.
La pronuncia in sé non aggiunge nulla di nuovo rispetto ai precedenti giurisprudenziali, senonché si sofferma, nel rispondere ad uno dei motivi di ricorso di parte datoriale, sul concetto della piena fungibilità delle diverse mansioni all’interno delle singole aree.
E ciò importa non tanto per ribadire l’orientamento consolidato della prassi, quanto per marcare la differenza sostanziale, rispetto al passato, dell’impostazione data dalla recente riscrittura dell’art. 2103 Codice civile.
Leggendo le motivazioni non si può che incappare nella formulazione del principio per cui, alla luce dello stringente requisito della equivalenza professionale tra le mansioni di arrivo e quelle di destinazione, nessun margine di scelta poteva essere lasciato alla contrattazione collettiva. In altre parole era inammissibile che le parti sociali, intervenendo sulla classificazione del personale, riconducessero mansioni tra loro differenti alla stessa area, sancendone di fatto una sorta di equivalenza “convenzionale”, se ciò avesse in qualche misura comportato un tentativo di elusione del vaglio di legittimità demandato al giudice; giudice che doveva comunque rispondere al principio di effettività, senza dunque la possibilità di far arretrare il controllo al piano formale.
È innegabile che la principale svolta imposta dal Jobs Act in tema di mansioni sia l’eliminazione del problematico parametro dell’equivalenza quale metro di valutazione circa il legittimo esercizio dello jus variandi. Oggi dunque il bene giuridico tutelato dalla disposizione non è più la professionalità (anche in prospettiva di un suo accrescimento) del lavoratore, quanto la c.d. “professionalità classificata”, cioè quella delineata dalla contrattazione collettiva.
L’art. 2103 co. 1 Codice civile dispone infatti che all’interno del medesimo livello di inquadramento e categoria legale, tutte le mansioni sono esigibili in via ordinaria dal datore di lavoro. Nello stesso comma si è pure previsto che «in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale».
Ecco che il caso – apparentemente ininfluente dal punto di vista del dibattito scientifico – recentemente esaminato dalla Corte di Cassazione, mostra tutta la sua centralità se letto con una visione di prospettiva rispetto alle sfide che la contrattazione si troverà a dover fronteggiare per “allinearsi” alle nuove disposizioni.
È ragionevole sostenere che se il caso si fosse proposto sotto la vigenza del nuovo art. 2103 Codice civile, la Cassazione ben avrebbe potuto argomentare nel senso dell’inesistenza di un illecito demansionamento a danno del lavoratore, posto che una riorganizzazione aziendale effettivamente vi è stata e che il lavoratore è stato adibito a mansioni appartenenti al livello di inquadramento immediatamente inferiore a quello di partenza.
Rimangono però alcuni nodi da sciogliere.
Anzitutto, il reale significato della condizione di cui al primo comma, ossia la «modifica degli assetti organizzativi aziendali», che ragionevolmente dovrà essere letta alla luce dei più puntuali criteri indicati dalla legge delega (art. 1 co.7 lett. e, l. n. 183/2014).
In secondo luogo il limite stringente costituito dall’obbligo di mantenimento della medesima categoria legale, introdotto successivamente rispetto alla prima bozza del decreto delegato, che rischia di ingessare i sistemi di classificazione ed inquadramento del personale in quei contratti che (già oggi) hanno superato il criterio legale per perseguire obiettivi di flessibilità organizzativa.
Dunque se da un lato – con l’eliminazione del criterio dell’equivalenza – la nuova disposizione garantisce ampi margini di certezza del diritto, dall’altro apre nuovi spazi al controllo giudiziale, circa il rispetto dei limiti rappresentati dai livelli di inquadramento e dalle categorie legali; ed è forse proprio su quest’ultimo punto che si costruirà un nuovo formante giurisprudenziale.
Quella che si prospetta è dunque una inversione di rotta della giurisprudenza in materia di demansionamento, fungibilità delle mansioni e risarcimento del danno, che però non è scontato riuscirà a rispondere alle esigenze di flessibilità e autonomia nell’organizzazione della forza lavoro dell’impresa nell’era della Industry 4.0 (si veda sul punto F. Seghezzi, Lavoro e relazioni industriali in Industry 4.0, Working Paper ADAPT University Press, n. 1/2016, spec. p. 21).
ADAPT Junior Fellow
@MarcoMenegotto