Stante la chiusura della Cgil, che oggi ha dichiarato lo sciopero generale contro il Jobs Act renziano, nel fronte sindacale non mancano le aperture di disponibilità a sedersi al tavolo e discutere di mercato del lavoro. Anche nella Uil che pure ha deciso di scendere in sciopero. «La riscrittura delle norme che riguardano il lavoro è un’idea del 2009», spiega a Libero Danilo Margaritella, segretario regionale della Uil Lombardia. «E da subito ci siamo dichiarati assolutamente favorevoli a una revisione delle norme che constano di migliaia di pagine nel nostro diritto del lavoro. Penso in particolare alla legislazione legata alla cassa integrazione, al regime degli orari, al part lime, all’apprendistato. Tutto ciò che rappresenta una semplificazione e va verso un codice del lavoro snello, attuale, più leggibile e capace di facilitare le relazioni industriali ha il nostro appoggio incondizionato. Ma…».
Ma?
«Nel progetto del nuovo Codice semplificato c’era anche la flexsecurity che all’inizio del decennio si pensava di mutuare ai Paesi nordeuropei che hanno un mercato del lavoro comunque molto diverso dal nostro. Il contratto a tutele crescenti arriva da lì. Di quel modello, però, oggi il governo ha recuperato un pezzo, inserendolo nel Jobs Act, il contratto a tutele progressive, decontestualizzandolo delle norme che si applicano nei Paesi presi a modello».
Cosa c’è che non funziona, secondo voi?
«Il Jobs Act crea una separazione netta fra giovani lavoratori e vecchi lavoratori. Con due regimi diversi. I primi assunti in base al nuovo articolo 18, mentre per gli altri vale la formulazione originale prevista dallo Statuto dei lavoratori. Un meccanismo che non può funzionare almeno per due motivi»
Ce li spieghi…
«Crea un mercato duale, da un lato gli assunti, dall’altro chi entra con una disciplina e tutele diverse. Ma soprattutto, e questo è il primo motivo, il nuovo contratto può rivelarsi pericoloso per quel milione e mezzo di lavoratori a tempo indeterminato che ogni anno cambiano posto…».
In che senso pericoloso?
«Ripartono da neoassunti, abbandonando le tutele del vecchio contratto. Il rischio è di bloccare il turnover, scoraggiando chi ha un posto garantito dal lasciarlo. Ma c’è un secondo rischio ben più insidioso: che imprese disinvolte attuino progetti di ristrutturazione con l’unica finalità di chiudere i rapporti regolati dai vecchi contratti per sostituirli con la nuova disciplina…».
Chiudere la vecchia ragione sociale e spostare i dipendenti in una newco svincolata dal vecchio articolo 18. È così che potrebbe funzionare?
«Più o meno, soprattutto dove il sindacato è assente. Tenga conto che fra gli altri vantaggi questi imprenditori disinvolti porterebbero a casa l’abbattimento dell’Irap per tre anni previsto per le nuove assunzioni. Alla fine si ritroverebbero con dipendenti che costano meno e facilmente licenziabili».
Cosa manca nel Jobs Act?
«Il progetto di flexsecurity nella formulazione proposta cinque anni or sono dal professor Pietro Ichino conteneva un meccanismo di vere tutele crescenti. Così non sarà. Renzi ha utilizzato solo un pezzo di quella riforma e lo ha adattato sbilanciandolo eccessivamente a favore delle imprese. E poi c’è il tema del demansionamento autorizzato per legge. Negli ultimi dieci anni, nei contratti difensivi, abbiamo siglato tantissimi accordi che includevano i demansionamenti di alcune figure. Ma erano il frutto di un confronto in azienda, una trattativa seria e approfondita».