Il “pensiero stupendo” del Governo sul mercato del lavoro è stato anticipato dal Foglio a Ferragosto. Sinteticamente, l’intenzione di Palazzo Chigi è quella di superare l’estemporaneità dell’esonero contributivo triennale previsto dall’ultima Legge di Stabilità per i soli assunti nell’anno 2015. Una misura che da subito si sapeva essere molto costosa sia in termini di bilancio (circa 15 miliardi), che in termini di fluidità del mercato, trattandosi a tutti gli effetti di una “droga” legislativa, che peraltro non sta dando i risultati sperati di nuova occupazione, mentre certamente aiuta a trasformare rapporti a termine in contratti a tutele crescenti
La soluzione allo studio dei consiglieri economici del Premier prevede un taglio strutturale e permanente di sei punti di contribuzione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti: tre punti a vantaggio del datore di lavoro e tre a vantaggio del dipendente, che potrebbe scegliere di averli (tassati) in busta paga o di destinarli (senza decurtazioni) alla previdenza complementare.
Si tratta di un piano teoricamente ineccepibile: è molto più efficace in termini di movimentazione del mercato del lavoro un taglio definitivo e duraturo piuttosto che tante misure-incentivo ogni anno incerte. È il ragionamento valido anche i progetti di revisione del Fisco: uno snellimento strutturale delle tasse è molto più fruttuoso del mosaico di deduzioni e detrazioni che attualmente caratterizza il nostro sistema fiscale. Il taglio delle tasse, però, costa tanto e questo lo rende difficilmente concretizzabile, almeno nel breve termine.
La nuova misura sul lavoro, invece, non costerebbe nulla. Addirittura dopo qualche anno determinerebbe maggiori entrate. È questo il passaggio più delicato del piano del Governo. Nella proposta allo studio non si prevede una decurtazione di ciò che, grazie ai versamenti di lavoratori e imprese, entra nelle casse dello Stato, ovvero del “cuneo fiscale”. Al contrario il taglio interesserebbe il “cuneo contributivo”, che non si compone di vere e proprie “tasse” (per quanto siano così percepite), ma di somme destinate ad alimentare il reddito futuro del lavoratore sotto forma di rendita pensionistica.
In altre parole, il piano renziano opererebbe un abbassamento del costo del lavoro a vantaggio di Stato e imprese con i soldi dei lavoratori, in particolare dei giovani, coloro che più facilmente vengono assunti con il “nuovo” contratto a tempo indeterminato (anche se è tutta da dimostrare la fattibilità tecnica di una aliquota diversa tra contratti a tempo indeterminato pre e post 7 marzo 2015). Tagliare il cuneo fiscale vorrebbe dire, necessariamente, meno spesa pubblica; ridurre il cuneo contributivo significa invece risparmiare sulla prossima spesa pensionistica. Scelta tutt’altro che neutrale se si considera che gli assegni del futuro, quelli destinati alla generazione dei trentenni di oggi, già sono stimati inferiori del 40-50 per cento rispetto all’importo dei vitalizi erogati alla generazione dei padri.
Vi è poi un secondo paradosso nascosto tra le righe delle proposte circolate in queste settimane. Nella stessa Legge di Stabilità che ha istituito l’esonero contributo che ora il Governo deve correggere, fu disposta l’elevazione dall’11 al 20 per cento dell’aliquota di tassazione sui rendimenti finanziari delle forme di previdenza complementare. Misura che a molti fece storcere il naso per l’improvviso cambio di rotta rispetto alla (pur debole) tendenza del precedente decennio, ovvero l’incoraggiamento del secondo pilastro pensionistico. Una misura, ancora una volta, dannosa in primis per i “giovani adulti”. Ora il Governo sembra invertire la direzione e intraprendere una strada teoricamente condivisibile.
Il sospetto però è che questo “ritorno di fiamma” non sia giustificato da attenzione per il benessere futuro di chi è appena entrato nel mondo del lavoro, bensì dall’esigenza di attutire il sicuro indebolimento degli assegni, di cui il Governo è molto più informato degli stessi lavoratori. Insomma, il piano all’attenzione di Matteo Renzi, seppure se per una buona causa (la stipulazione di più contratti a tempo indeterminato, esito comunque incerto a fronte di una sicura perdita di valore dei vitalizi) “rompe” la pensione dei giovani. Ai quali rimangono i “cocci”, aggiustabili solo accettando di prendere ancora meno, ossia destinando il risparmio che viene loro obbligato alla previdenza complementare.
Emmanuele Massagli
Presidente ADAPT
@EMassagli
* Pubblicato anche su Il Foglio, 26 agosto 2015 con il titolo Quante trappole “anti-giovani” nel piano di Renzi per rilanciare l’occupazione.
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