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Bollettino ADAPT 27 giugno 2022, n. 25
Il periodo pandemico non ha fatto che enfatizzare gli squilibri di genere già esistenti e persistenti nei moderni mercati del lavoro: nel 2020 le lavoratrici che avevano perso la loro occupazione sono il doppio rispetto agli uomini. Nei periodi di crisi sono sempre i soggetti più deboli che vengono penalizzati in maniera più incisiva. Guardando al mercato del lavoro in una prospettiva di genere si nota che, rispetto al tipo di contratto applicato e ai salari percepiti, le donne occupano la maggior parte delle condizioni sfavorevoli.
Il lavoro, fuori dalle mura domestiche, rappresenta ormai una dimensione fondamentale e caratteristica anche per la vita delle donne. Oggigiorno, infatti, sono poche le donne che durante tutto l’arco della vita decidono di non dedicarsi al lavoro salariato, ricoprendo totalmente ruoli familiari di madre, moglie o compagna. Al contrario anche le biografie delle donne sono diventate poliedriche e rafforzate da una pluralità di dimensioni, prima tra tutte quella lavorativa e professionale. Il fenomeno va peraltro letto con la più recente evoluzione del mercato del lavoro, in Italia come in altri Paesi, con una costante contrazione della occupazione nella manifattura a vantaggio del terziario e dei servizi, del terzo settore e dei servizi di cura e di assistenza alla persona. Settori questi che vedono, per varie ragioni, una forte componente femminile. Seppur le donne siano maggiormente presenti nel mercato del lavoro, si è però lontani dal poter affermare di aver raggiunto una parità di genere in esso.
Le prime divergenze emergono da una analisi statistica del fenomeno lavoro. Un dato rilevante riguarda il confronto tra il tasso di occupazione femminile e maschile che per l’anno 2021 differiva di 17,7 punti percentuali. Il tasso di occupazione maschile si attestava infatti al 67,1% mentre quello femminile al 49,4%. Tale tendenza, seppur ancora notevolmente ampia, si è ridotta nel tempo, considerando che all’inizio del nuovo secolo, nell’anno 2000, tale divario si attestava attorno ai 26,2 punti percentuali. L’Italia registra un tasso di occupazione femminile inferiore rispetto alla media europea che nel 2021 era del 63,4%. Il dato complessivo sul tasso di occupazione nasconde delle evidenti discrepanze a livello territoriale in quanto alcune regioni del Sud (tra cui Abruzzo, Sardegna, Basilicata, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia e Campania) hanno un tasso nettamente inferiore a quello nazionale. La lettura congiunta del tasso di disoccupazione e del tasso di inattività rileva per l’anno 2021 una diminuzione del primo e un aumento del secondo (dal 43,8% del 2018 al 44,6% del 2021) lasciando presagire che alcune disoccupate abbiano smesso anche di cercare un lavoro. In Italia, nel 2019, le donne che transitavano dalla disoccupazione all’inattività erano il 41,9%, percentuale che negli ultimi dieci anni è cresciuta del 10%. Dalla lettura incrociata dei dati pare che la conciliazione vita-lavoro e il forte carico di lavoro domestico non sia l’unico motivo per cui le donne non lavorano, anzi sembra piuttosto che le donne trovino nel lavoro di casalinghe una alternativa al loro stato di inoccupazione.
Prerogativa che sembra essere femminile in Italia è poi il lavoro a tempo parziale. Nel 2019, il 32% di donne lavoravano part time contro l’8,5% degli uomini. A questi dati si aggiunga la quota di part time involontario, cioè la quota di persone che è stata costretta (per diverse cause) ad accettare un lavoro a orario ridotto in assenza di altre opportunità. Tale attività è incrementata di 10 punti negli ultimi 10 anni. Nel 2019, tale pratica riguardava il 19,1%, dato drammatico se confrontato con la media OECD, che si attestava al 5,1%, o con il part time involontario che coinvolge la componente maschile (6,1%). La maggior presenza di donne impegnate con contratto part time, se legato al dato che vede una maggiore occupazione delle donne nei lavori domestici e cura dei figli, mette in evidenza che il fenomeno della “doppia presenza” sia ancora una condizione prettamente femminile. Con tale espressione, coniata per la prima volta da Laura Balbo nel 1978 (La doppia presenza, «Inchiesta», 32, pp. 3-6) volle esprimere sinteticamente l’esperienza femminile “caratterizzata dal sommarsi di due presenze parziali”: nel contesto lavorativo extra-domestico e nella vita familiare. La maternità, come emerge dalle statistiche permane un impedimento e un disincentivo per la partecipazione delle donne al mercato del lavoro salariato. Dai dati ad oggi disponibili si può infatti osservare che la presenza di figli e il numero degli stessi ha una incidenza sul tasso di occupazione femminile che diminuisce al crescere del numero di figli, a differenza di quanto invece accade per gli uomini.
Oltre a questi dati strutturali, approfondendo il fenomeno lavoro in tutte le sue micro-sfaccettature, anche qualitative, emergono ancora delle sostanziali differenze e discriminazioni di genere che verranno qui brevemente presentate. Si tratta di disparità insistenti a livello retributivo, settoriale e meritocratico. Infatti, analizzando i dati sopra presentati attenti osservatori hanno mostrato come la quota di popolazione femminile occupata è non solo inferiore a quella della media europea ma anche caratterizzata da marcati divari retributivi di genere, così come da una riduzione delle prospettive di carriera soprattutto in relazione a ruoli dirigenziali e di responsabilità.
Un aspetto connesso alla condizione femminile è il tema della povertà lavorativa, cioè quella condizione che, secondo la definizione dell’Eurostat, colpisce quelle persone che pur essendo occupate per più della metà dell’anno hanno un reddito al di sotto della soglia di povertà. Le donne corrono maggiormente il rischio di povertà lavorativa (in work poverty) rispetto agli uomini in quanto è una situazione strettamente connessa al tipo di contratto (le donne assunte con contratto a tempo parziale corrono il doppio del rischio rispetto a chi lavora a tempo pieno; il rischio aumenta ulteriormente per le lavoratrici assunte con contratto a termine). Le donne, a parità di competenze e di istruzione, ricoprono posti di lavoro peggiori. Infatti, a tal proposito, il settore del lavoro domestico e di cura, in cui c’è una maggior presenza femminile, è anche il settore in cui i compensi sono più miseri. Le donne vengono generalmente inserite in categorie meno qualificate, meno tutelate e retribuite, in cui è frequente l’uso del lavoro sommerso o in cui è diffuso il ricorso a contratti flessibili o a tempo parziale. In Italia, dai dati dell’Eurostat 2010, risulta che le lavoratrici povere sono il 67% contro il 32% dei lavoratori.
Ampiamente diffuso è anche il fenomeno del cosiddetto “gender pay gap”, con cui si intende la differenza nella retribuzione oraria lorda tra uomini e donne, trasversale ai vari settori dell’economia. Ciò che contribuisce a un divario retributivo di genere è da rilevarsi in diverse concause. Innanzitutto, le posizioni lavorative di gestione e supervisione sono ricoperte perlopiù da uomini (meno del 6% dei dirigenti è una donna), il che comporta che questi abbiano anche una retribuzione più alta. Le donne, inoltre, da un lato tendono a interrompere più spesso la loro attività lavorativa rispetto agli uomini (ciò ha importanti effetti sulla loro possibilità di fare carriera, sulla retribuzione oraria, sui loro guadagni futuri e sulla loro pensione), dall’altro sono impegnate in importanti compiti non retribuiti (lavori di casa e di cura di familiari e/o di figli). Secondo una stima, a livello europeo, le lavoratrici dedicano a tali attività 22 ore settimanali, mentre gli uomini solo 9. A ciò si aggiunga che sono ancora fortemente presenti fenomeni di segregazione occupazionale. Nella stima del divario retributivo di genere si tiene anche conto dei tre principali fattori che penalizzano le donne: la retribuzione oraria inferiore, il minor numero di ore retribuite, il minor tasso di occupazione (dato, quest’ultimo, che è spesso conseguenza di interruzioni di carriera per la cura della casa, della famiglia o dei figli). La strutturalità del problema del gender pay gap è eclatante anche guardando ai dati pubblicati da Almalaurea a inizio 2022. Secondo tale ricerca, risulta che, a cinque anni dalla laurea, in media gli uomini percepiscono circa il 20% in più rispetto alle donne. Tra i laureati di primo livello, le donne percepiscono €1.374 mentre gli uomini €1.651; tra i laureati di secondo livello le prime guadagnano in media €1.438, mentre i secondi €1.713. Questo divario retributivo di genere è inaccettabile poiché proprio come ha recentemente ricordato P. Tomassetti, (2017), Contrattazione collettiva, differenziali retributivi e disuguaglianze sociali, in DRI, 2/XXVII, pp. 457-485, anche la Dichiarazione universale dei diritti umani sancisce all’articolo 23, comma 2, il principio di “eguale retribuzione, per eguale lavoro”.
Il mercato del lavoro italiano presenta al suo interno due differenti forme di segregazione delle donne: una segregazione denominata “orizzontale” e una “verticale”. Con il termine segregazione orizzontale si intende la maggiore concentrazione di donne in settori economici e mestieri ritenuti tipicamente femminili (le insegnanti, le commesse, le infermiere, le estetiste, ecc.) e parallelamente la scarsa presenza e l’allontanamento delle donne da quelle professioni culturalmente ritenute di solo appannaggio degli uomini (autista, meccanico, chirurgo, ecc.). Dunque, negli anni il numero di donne presenti nel mercato del lavoro è cresciuto, ma soprattutto in quei settori ritenuti prettamente femminili secondo gli stereotipi di genere vigenti. Tali stereotipi ancora nella società contemporanea conferiscono differenti possibilità, capacità, livelli di potere e riconoscimenti a uomini e donne. Vi è poi un secondo tipo di segregazione, la segregazione verticale che, per come è stata spiegata, analizzata e puntualizzata dagli scienziati sociali intesse strette relazioni con il mondo dirigenziale e manageriale. Con la definizione “segregazione verticale” o “sex-typing verticale” gli studiosi hanno voluto spiegare la difficoltà delle donne a scalare le gerarchie aziendali. In particolare, tale espressione è spesso associata alla metafora del glass ceiling (soffitto di cristallo) alludendo a quella barriera invisibile ma impenetrabile che impedisce alle donne, nel contesto lavorativo e non solo, di ricoprire posizioni di particolare responsabilità e di accedere alla “stanza dei bottoni”. Per affrontare il problema della segregazione e dell’idea che esistano occupazioni più femminili di altre, le parti datoriali e sindacali potrebbero intervenire attraverso la stipula di contratti collettivi che si pongono l’obiettivo di rielaborare i livelli di retribuzione nonché i sistemi di classificazione e inquadramento del personale.
In conclusione, il framework presentato invita le rappresentanze sindacali, i decisori politici e tutti coloro che si occupano di lavoro a riflettere sulla natura e le cause di tali disparità. Occorre ideare strategie di inclusione ed empowerment delle lavoratrici, dei lavoratori e delle loro rappresentanze che nel nostro contesto nazionale, più che in altri, svolgono da sempre un ruolo determinante nello sviluppo e progresso delle condizioni di lavoro. Specificando che tale articolo si inserisce in un percorso di approfondimento e rivisitazione della condizione femminile nel mercato del lavoro italiano, la situazione sinora fotografata evidenzia quanto queste questioni tocchino da vicino il sindacato che, essendo storicamente chiamato a svolgere un ruolo di rappresentanza e tutela di tutti i lavoratori a 360 gradi, non può volgere le spalle alla “questione femminile” che è indubbiamente una delle tante sfide aperte nel nostro sistema sociale. Per questo, come Adapt, nelle prossime settimane, porremo l’accento e daremo voce alle azioni introdotte dal sindacato per la parità di genere e al nodo della rappresentanza femminile nelle organizzazioni sindacali.
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena