All’indomani della diramazione degli ultimi dati Istat, tutti sono concentrati sull’incessante aumento del tasso di disoccupazione, soprattutto degli under 25. Giusto, anche perché nel resto della Unione Europea la disoccupazione sta invece calando. Ma come ricordava Marco Biagi, quello che fa del nostro il peggior mercato del lavoro in Europa non è tanto la disoccupazione, quanto il basso tasso di occupazione regolare soprattutto di donne e giovani. In Italia poca gente lavora. Pochi pagano tasse e contributi. E i pochi contribuenti pagano tantissimo. Una spirale che deprime produttività e capacità competitiva del sistema Paese.
La recente Raccomandazione europea sulle misure di riforma economica e strutturale dell’Italia coglie esattamente questo aspetto laddove indica tra le principali disfunzioni del nostro Paese il basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro associato a un micidiale mix tra bassa crescita della produttività ed elevato costo del lavoro. Questo è lo scenario entro cui si collocano le valutazioni della Commissione sulle riforme del lavoro intervenute negli ultimi 12 mesi.
Puntuali i riferimenti ai contenuti delle misure introdotte dal decreto Poletti in materia di contratto a termine e apprendistato. Più vago il giudizio di merito, che resta sospeso in attesa dell’approvazione della parte del Jobs Act affidata alla legge delega, e ad un più preciso impact assessment sul relativo stato di implementazione: «sebbene molti degli interventi proposti appaiano adeguati per affrontare le sfide del mercato del lavoro italiano, – osservano i tecnici della Commissione – la loro efficacia dipenderà sostanzialmente dalla loro concezione e successiva attuazione».
È complessivamente positiva invece la valutazione della stagione di riforma degli assetti contrattuali aperta nel 2009 e conclusasi con il Testo Unico sulla Rappresentanza siglato da Confindustria e sindacati il 10 gennaio 2014 sulle cui potenziali e anche criticità si è soffermato un recente studio ADAPT (Il Testo Unico sulla Rappresentanza a cura di F. Carinci, ADAPT Labour Studies e-Book series, n. 26/2014). Si tratta di riforme importanti, ancorché non pienamente implementate, che si muovono nella direzione di un «ulteriore decentramento della contrattazione salariale che potrebbe favorire il migliore adeguamento dei salari all’andamento della produttività e alle condizioni locali del mercato del lavoro». Tema questo cruciale in un paese come l’Italia che è caratterizzato da una grande dispersione della produttività e dei risultati del mercato del lavoro tra aree geografiche e imprese.
In materia di relazioni industriali, Bruxelles conferma quindi la linea condivisa con il resto della Troika. A più riprese negli ultimi anni, infatti, non ha mancato di rimarcare la necessità di un convinto spostamento del baricentro contrattuale nei luoghi di lavoro e sui territori per allineare costo del lavoro e incremento del reddito dei lavoratori a crescite reali di ricchezza. In altre parole, la direzione sarebbe quella indicata anche nel recente documento programmatico della Confindustria di un progressivo alleggerimento della contrattazione collettiva di rilevanza nazionale. Ciò in favore del secondo livello negoziale, cui verrebbero affidati non solo il potere e gli strumenti per individuare le soluzioni più idonee a risolvere problemi e creare produttività dove i problemi insorgono e gli incrementi produttivi si realizzano, ma anche e soprattutto la regolazione di gran parte dell’impianto economico-normativo del rapporto individuale di lavoro oggi disciplinato dal CCNL.
Lo snodo centrale resta quindi quello della produttività e qualità del lavoro, posto che «la crescita debole della produttività fa aumentare il costo del lavoro per unità di prodotto, gravando di conseguenza sulla competitività di costo. L’elevato cuneo fiscale incrementa ulteriormente il costo del lavoro». Strategiche, da questo punto di vista, le misure di decontribuzione e detassazione del salario di produttività che agiscono anche come forma di incentivo al decentramento contrattuale.
Pur tuttavia i tecnici della Commissione sono attenti nel rilevare che «i contratti a livello aziendale interessano una minoranza dei lavoratori e delle imprese, che la quota è particolarmente bassa nelle regioni meridionali e che è effettivamente diminuita durante la crisi». I dati messi a disposizione dall’Osservatorio sulla contrattazione di secondo livello della CISL indicano invero che il numero di accordi a livello decentrato è diminuito di circa il 15% dal 2011. Al pari delle valutazioni sulle tipologie contrattuali, è quindi necessario che alla fase di ristrutturazione del modello contrattuale segua una effettiva implementazione della contrattazione decentrata. Non solo dichiarazioni di intenti e regole, quindi. Ma anche determinazione e coraggio per attuarle.
Paolo Tomassetti
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@PaoloTomassetti