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Bollettino ADAPT 20 dicembre 2021, n. 45
Un tema divisivo che attraversa oggi le diverse sensibilità dei cittadini e dei Gruppi Sociali è quello della (asserita) discriminazione che deriverebbe dall’obbligo di dotarsi di un “green pass” per accedere ai luoghi di lavoro, di svago e sui mezzi di trasporto.
Il tema si è ufficialmente posto all’attenzione pubblica con del green pass “base”, generalizzato per tutta la popolazione, residente e non, avvenuto con d.l.23 luglio 2021 n.105 che, a scadenze differite, ne ha imposto l’obbligo per l’accesso ai luoghi di lavoro e di svago (dal 22 luglio) e per la ripresa della scuola in presenza (dal 6 agosto).
Le manifestazioni più ostili a questa misura si registrano tuttavia solo dopo gli ultimi provvedimenti adottati dal Governo con il d.l. 26 novembre 2021 (“super green pass”) e con il dm 14 dicembre 2021 (“green pass rafforzato”).
Con il primo provvedimento si introduce l’obbligo del personale delle strutture sanitarie e delle RSA di sottoporsi (anche) alla terza dose del vaccino e l’estensione dell’obbligo vaccinale ad altre categorie di lavoratori (personale scuola, militari, forze di polizia, personale amministrativo della sanità e addetti al soccorso pubblico). Con il secondo, disposto dal Ministro della Salute, si prevede l’obbligo del “test negativo in partenza” per i viaggiatori che entrano in Italia da tutti i Paesi (anche europei). Che si aggiunge, per i non vaccinati, all’obbligo di quarantena per i successivi 5 giorni dall’ingresso stesso.
Allo studio del Governo si ipotizzano poi altre misure, tra cui una sorta di coprifuoco selettivo in alcuni giorni e ore di fine anno, per i non vaccinati o guariti dal Covid, e la riduzione della durata del “super green pass”, che passerebbe a 5 o 6 mesi dalla data di ultima vaccinazione.
Le misure sono dichiaratamente finalizzate a proteggere la salute dei cittadini e l’economia – in lenta ma progressiva ripresa – ma si propongono anche di allontanare per qualche settimana l’arrivo della nuova variante “omicron” attraverso l’ampliamento della platea dei vaccinati nuovi e dei “tri-vaccinati”, salvaguardando al contempo le attività economiche che in questo periodo dell’anno registrano i maggiori incassi.
Le iniziative adottate con i provvedimenti citati, oltre al malumore interno di una parte dei cittadini, hanno suscitato una velata disapprovazione dei vertici dell’Unione Europea, che – più che per le misure in sé – lamentano l’introduzione di vincoli alla libera circolazione nell’area Schengen senza il preventivo coordinamento europeo, e comunque senza un congruo “preavviso”. Oltre al fatto che, per alcuni Paesi, dette misure non sarebbero “proporzionali né giustificate”.
Compito del giurista (particolarmente difficile in questi tempi di superproduzione normativa) non è solo quello di interpretare le leggi e la loro corrispondenza all’Ordinamento interno e internazionale, ma – con buona pace di chi ritiene questo compito solo un esercizio retorico, se non addirittura uno sterile “garbuglio” di manzoniana memoria – è anche quello di indagare, indipendentemente da posizioni politiche e ideologiche, ogni “fatto umano” che assume rilevanza giuridica. Soprattutto quando il “fatto” diventa oggetto di interpretazione giuridica anche da parte di “non addetti ai lavori” che obbiettivamente rischiano di fraintenderne il significato e, soprattutto la “ratio” della loro collocazione nel sistema normativo, che si fonda su un complicato sistema di pesi e contrappesi.
Per questo appare utile aggiungere (e in buona parte ribadire) alcune riflessioni che ne agevoli la comprensione, lasciando aperta la discussione sul merito della questione, che appartiene evidentemente a tutti.
Le prime critiche riguardano la (presunta) violazione dei principi di uguaglianza (art. 3 Cost.) e di libera circolazione (art. 16 Cost; art. 3, par. 2 TUE; art. 21 TFUE; art. 45 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea). Ad esse si aggiungono le critiche di chi lamenta la violazione del diritto al lavoro (art. 1 Cost.) e della libertà di impresa (art. 42 Cost.) peraltro in contrapposizione con chi, invocando gli stessi articoli, ritengono, al contrario, che le misure adottate proteggano sia il lavoro che l’impresa.
Ma la critica più accesa, che agita le discussioni sui “social” e porta in piazza molti cittadini, riguarda l’obbligo del “green pass”, ritenuto illegittimo ed anticostituzionale in quanto tenderebbe ad introdurre in modo surrettizio un obbligo vaccinale generalizzato senza la necessaria copertura di una legge, per evitare rischi di tenuta “politica” ma anche conseguenze di natura civile e penale per le reazioni indesiderate che gli stessi vaccini, in alcuni casi, potrebbero produrre.
Il “fatto” è di per sé nuovo, e comunque mai registrato con tanta virulenza nel nostro recente passato, nonostante sia noto che qualsiasi prodotto medicinale, preventivo o curativo, non è esente da potenziali conseguenze sulla salute, anche se percentualmente limitate. La ragione di questo interesse sembra tuttavia verosimilmente addebitabile alla massiccia campagna di informazione (e controinformazione) mediatica che ha accompagnato la produzione e la somministrazione dei vaccini e le altalenanti (e spesso discordanti) prese di posizione del mondo scientifico.
Se questa frenesia di partecipare al dibattito sia un fenomeno solo italiano, non è facile dirlo. Anche se la “vulgata” indulge spesso ad accentuare la nostra propensione alla “tuttologia”, che di volta in volta si manifesta sul tema del giorno tamburellato dai mass media. Che nel presente sembra coinvolgere anche la corretta (?) interpretazione delle norme costituzionali. Compito apparentemente molto facile, se ci si limita solo a leggere tre o quattro articoli della legge, senza conoscere gli antefatti e le successive pronunce.
Sarebbe lungo fare qui l’esegesi delle norme, spiegare la distinzione tra costituzione formale, materiale e sostanziale, citare i numerosi studi dottrinali e la lunghissima giurisprudenza che ha accompagnata la legge costituzionale negli ultimi 70 anni di vita. Altrettanto complicato sarebbe spiegare in poche righe la valenza giuridica di quei principi costituzionali “non scritti”, che derivano anch’essi dalla rielaborazione delle norme costituzionali e costituiscono il riferimento per le sentenze dei giudici. Anche perché nella società del “mordi e fuggi”, in cui tutto è provvisorio e relativo, ciò che sembra maggiormente interessare è il “qui e ora”, senza indulgere a noiosi approfondimenti.
Si può tuttavia osservare, in breve sintesi, che ogni legge comprime in certa misura un diritto di libertà, ponendo talvolta limiti, talora obblighi, altre volte ancora confini all’esercizio dei diritti individuali, nell’obbiettivo di evitare che l’interesse del singolo, o di un gruppo, invada – oltre un certo limite – il pari diritto alle libertà degli altri.
Non esiste cioè un diritto incomprimibile, mentre è possibile che misure potenzialmente “discriminatorie” siano adottate per garantire un equilibrio tra interesse individuale e collettivo, alla luce dei principi costituzionali non scritti, già sopra citati, dell’equità, della proporzionalità, della ragionevolezza e della non invasività. Basti pensare alle leggi fiscali, al diritto alla vita che subisce limitazioni dalla normativa sull’aborto, ed al diritto di proprietà che può essere limitato da motivi di “pubblica utilità” ed essere anche oggetto di esproprio. Sta ovviamente al Legislatore, di volta in volta, introdurre solo i limiti strettamente necessari, bilanciando con saggezza le limitazioni da imporre ai cittadini ed a i Gruppi Sociali.
Esempi di limitazione ai diritti di libertà se ne trovano anche all’interno delle stesse norme costituzionali. La libertà di circolazione, ad esempio, trova limiti nello stesso art. 16 Cost. che stabilisce che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Concetto ribadito anche nel secondo comma, dove si precisa che «nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche» e che «ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge».
Ma restando in tema, l’oggetto principale dello scontro odierno resta, come anzidetto, l’introduzione del “green pass”. Le limitazioni erano inizialmente meno restrittive, potendo lo stesso essere ottenuto attraverso un tampone rapido. I malumori, se non le aperte sollevazioni, si sono verificate solo successivamente con le (già citate) misure di novembre e dicembre e l’introduzione del “super green pass” e del “green pass rafforzato”.
Va qui precisato che non è certo in discussione il diritto di ogni categoria di far valere e proteggere il proprio specifico interesse di parte. Ed è certo che sia un preciso compito del legislatore, attraverso la politica, adottare le norme all’interno del perimetro costituzionale. Ed è proprio qui che nasce la discussione sul green pass, per alcuni contrario all’art. 32 Cost., che tutela il diritto alla salute come «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» stabilendo che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge» e che «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Occorre tuttavia procedere per passi, partendo anzitutto dalla ricerca della effettiva volontà del legislatore costituzionale che scrisse la norma, poi cristallizzata nell’art. 32, nel lontano 1947. Che ci porta a concludere che il Costituente abbia voluto bilanciare i diritti individuali e collettivi sia consentendo alla persona di scegliere come e se curarsi, sia introducendo l’obbligo del trattamento sanitario nei casi in cui la scelta individuale metta a rischio la salute pubblica.
Quanto al rispetto della dignità umana, l’obiettivo che si legge nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, era solo quello di «evitare l’intervento del medico per il miglioramento dell’organismo e della razza». Obiettivo quanto mai condivisibile dopo le scellerate sperimentazioni del periodo nazista sui corpi di prigionieri e a seguito della introduzione, nel medesimo periodo, «di pratiche di sterilizzazione obbligatoria, che la Germania aveva imposto particolarmente agli ebrei e che noi abbiamo inteso proibire per sempre nel nostro Paese come una mostruosità» (v. sempre lavori preparatori).
Né appare paragonabile, anche alla luce di una lettura “attualizzata” della norma costituzionale, assimilare la manipolazione genetica o la sterilizzazione delle persone all’obbligo del vaccino, nella considerazione che, statisticamente, sono stati proprio i vaccini a salvare l’umanità ed a consentire l’allungamento della vita, praticamente raddoppiata negli ultimi 100 anni.
Alla domanda “perché allora non si introduce un obbligo vaccinale genealizzato?” non sembra tuttavia sia stata data, fino ad oggi, una risposta convincente, non potendosi obbiettivamente considerare sufficiente la motivazione della difficoltà di dargli pratica attuazione. Soprattutto se si considera che tutti i precedenti vaccini obbligatori, non hanno posto al Legislatore questo problema. Un esempio per tutti è quello dei vaccini dell’infanzia, che impediscono l’accesso scolastico se non somministrati, nei tempi, quantità e con le cadenze indicate dalla legge. Con la differenza sostanziale, tuttavia, che il metodo “surrettizio” adottato per indurre i genitori a vaccinare i figli (impedirne l’accesso scolastico) trae titolo da una norma di legge che li ha resi obbligatori.
Più verosimile appare forse che la scelta di non introdurre (ancora?) un’obbligatorietà generalizzata del vaccino trovi piuttosto argomento nella stessa incertezza del mondo scientifico sul fatto che eventuali nuove varianti al virus Covid 19 possano renderlo inefficace o comunque scarsamente efficace.
Quale che sia la ragione, andrebbe onestamente ammesso e riconosciuto che l’obbligo del green pass, il cui mancato possesso impedisce l’esercizio di diritti costituzionali senza che ciò sia sostenuto da una legge che obblighi alla vaccinazione, è una lacuna giuridica da correggere, che non trova giustificazione nel mero rinvio alle disposizioni dell’art. 16 Cost., che sembrano riguardare gli spostamenti sul territorio e non tanto l’accesso ai servizi.
L’incerta situazione qui enunciata non comporta tuttavia un concomitante (e sovrapposto) problema di discriminazione tra cittadini. Occorre infatti ricordare che per sostenerne l’esistenza occorre individuare non solo il “fattore vietato” (che nel caso specifico sarebbe costituito dalle limitazioni all’accesso ad alcuni servizi), ma anche lo “svantaggio”, concreto e reale, cui il cittadino sarebbe soggetto per non essersi vaccinato. Che può ritenersi escluso dall’obbligo del green pass, avendo lo stesso la medesima natura giuridica di un’autorizzazione amministrativa, che presuppone la preesistenza di un diritto già posseduto dal cittadino e che, per essere esercitato, necessita solo di essere provato (nel caso specifico, attraverso il certificato vaccinale o il tampone).
Una legge che imponesse l’obbligo vaccinale generalizzato non sarebbe neppure contraria al principio di uguaglianza che la Costituzione declina all’art. 3 nell’obbligo di solidarietà di tutti i cittadini verso gli altri, in particolare malati e vulnerabili, la cui salute viene obbiettivamente messa a rischio da contatto con i non vaccinati.
Servirebbe a spegnere gli incendi? Ne provocherebbe di peggiori? Difficile far previsioni su una questione così incerta e delicata. Ma toglierebbe comunque un elemento di incertezza alla discussione, che si concentrerebbe a questo punto sul solo aspetto (scientifico) dell’efficacia della misura. E non su quello (giuridico) della validità della misura stessa.
Antonio Tarzia
ADAPT Professional Fellow