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Bollettino ADAPT 18 novembre 2019, n. 41
La recente sentenza del Tribunale di Treviso n. 424 del 19 settembre 2019, ha sancito l’illegittimità di una sanzione disciplinare a carico di una lavoratrice, cui veniva contestata una condotta negligente nell’esecuzione della prestazione, poiché le sue difficoltà scaturivano da una modifica del ciclo di lavoro, a cui la dipendente non si era ancora abituata. Nello specifico, la lavoratrice era stata sanzionata con una multa dal datore di lavoro che le imputava di aver svolto le sue mansioni con eccessiva lentezza e di rallentare il ciclo produttivo. Nella sentenza si legge innanzitutto che “il rallentamento nell’esecuzione della prestazione lavorativa è avvenuto in un momento in cui il ciclo di lavoro era da poco cambiato”. Ed invero la lavoratrice ha ammesso la lentezza nell’esecuzione della prestazione lavorativa ma ha, al contempo, eccepito che tale inadempimento non fosse a lei imputabile in quanto non aveva ancora maturato la necessaria esperienza per interagire in tempi celeri con il nuovo ciclo di lavoro. Inoltre, la sentenza del Tribunale di Treviso prosegue affermando che “risulta comprensibile che un lavoratore – con poca esperienza nell’esecuzione di quello specifico ciclo di lavoro, con quella sequenza e con quelle operazioni da svolgere necessiti quanto meno di un tempo di adattamento per acquisire il ritmo corretto”.
Peraltro, l’organo giudicante ha osservato che la lentezza contestata dall’azienda quale diretta conseguenza della negligenza della lavoratrice doveva essere provata ma il datore di lavoro, come si riscontra dalla decisione, non ha assolto questo specifico onere probatorio. Il Tribunale non ha infatti riscontrato “gli estremi per valutare la condotta della lavoratrice come negligente né in termini di esecuzione con voluta lentezza della prestazione lavorativa”. Per dimostrare quanto sostenuto dall’azienda, sarebbe stato necessario che vi fossero evidenze e fatti precisi comprovanti la negligenza e la volontaria lentezza della lavoratrice. Solo attraverso la prova di tali situazioni sarebbe stato possibile comminare una sanzione (legittima). Infine, il Tribunale ha rilevato che l’azienda non ha allegato prove che dimostrassero che la lentezza della lavoratrice avesse causato danni ai macchinari dello stabilimento o al materiale in lavorazione.
Nella sentenza, si legge, condivisibilmente, che, il lavoratore “ha bisogno di almeno un tempo di adattamento per acquisire il ritmo corretto” per il nuovo ciclo produttivo. Quindi, l’aspetto peculiare che sembrerebbe emergere da questa pronuncia è che vi sia una stretta correlazione tra il mutamento del ciclo di lavoro (che è una scelta del datore) e l’adattamento a tale cambiamento del lavoratore. Quest’ultimo sembrerebbe avere in sostanza il diritto di essere formato in vista dell’adozione del nuovo ciclo produttivo ed avrebbe, inoltre, come giustamente suggerito dall’organo giudicante trevigiano, diritto ad un periodo di adeguamento al nuovo metodo di lavoro. Se il datore di lavoro, per ragioni produttive ed organizzative, muta l’organizzazione del lavoro, deve anche attuare tutte le misure necessarie all’adeguamento delle risorse aziendali al cambiamento, compresa la formazione dei lavoratori.
Il lavoratore, debitore della prestazione lavorativa, non può subire un pregiudizio, consistente nel riconoscimento di un suo inadempimento, se tale mancanza è stata causata dalla condotta del datore di lavoro. Pertanto, l’impresa ha diritto ad effettuare i cambiamenti che ritiene necessari; tuttavia, al fine di ricevere la prestazione dal lavoratore, deve porre anche in condizione il debitore (dipendente) di poter adempiere.
Cambiare ciclo di lavoro senza una preventiva formazione e allo stesso tempo pretendere una adeguata prestazione dal lavoratore, che egli non è in grado di fornire nonostante la sua correttezza e buona fede (cfr. art. 1175 c.c.), significa non permettere al lavoratore/debitore di assolvere ai suoi obblighi. Come rinvenibile – sia pure implicitamente – dalla sentenza richiamata, il datore di lavoro deve attuare tutti gli accorgimenti necessari per mettere in condizione il lavoratore/debitore di poter adempiere nel modo corretto. In caso contrario, senza la necessaria formazione, si potrebbe configurare la mora credendi del datore di lavoro. La formazione, dunque, sta acquisendo un ruolo centrale nel rapporto tra cambiamento organizzativo e contratto di lavoro; un ruolo che non è più solo confinato in alcune disposizioni regolanti le mansioni (art. 2103 c.c.) o peculiari tipologie contrattuali (apprendistato) ma che, invece, sta recuperando i propri spazi in un momento di profonda trasformazione del tessuto produttivo.
In tale contesto, un ruolo certamente di rilievo potrebbe essere svolto dalla contrattazione collettiva, in ordine all’obbligo/onere formativo in riferimento alle modifiche del contesto organizzativo aziendale, sia che esse riguardino il mutamento dell’intero ciclo di lavoro, sia che esse riguardino mutamento delle mansioni di singoli dipendenti. Ad esempio, il contratto collettivo, in particolare quello aziendale, potrebbe non solo prevedere delle specifiche ipotesi in cui è necessaria la formazione ex art. 2103 c.c. ma anche – così come suggerito dalla sentenza del Tribunale di Treviso – stabilire, nel caso della modifica del ciclo di lavoro, un periodo di adattamento ai cambiamenti organizzativi, durante il quale potrà essere tollerata la maggiore lentezza in ragione di un progressivo adattamento al ritmo e al contesto di lavoro. Oltre tale periodo, tuttavia, qualora il datore di lavoro dovesse riscontrare un mancato adeguamento al cambiamento organizzativo, potrà legittimamente sanzionare il lavoratore (potendosi configurare, laddove ne ricorrano i presupposti, anche un’ipotesi di licenziamento per scarso rendimento).
Prevedendo dei parametri temporali di riferimento, in relazione, magari, alla quantità ed alla qualità del cambiamento organizzativo, il contratto collettivo, da un lato, tutelerebbe il lavoratore in quanto gli consentirebbe di continuare ad offrire la prestazione con la necessaria professionalità e di assimilare i nuovi compiti in un tempo ragionevole, e dall’altro, consentirebbe al datore di conoscere apriori i casi in cui vi è bisogno di formazione e le tempistiche entro le quali il dipendente deve adattarsi al mutamento per non incorrere in sanzioni. In un mercato del lavoro in continua evoluzione, come quello attuale, si auspica che la contrattazione collettiva, più vicina alle esigenze produttive e lavorative, possa disciplinare l’applicazione concreta del diritto alla formazione, ogni qualvolta si presenti un nesso tra il cambiamento organizzativo e la posizione lavorativa del dipendente.
Francesco Lombardo
Studente del Master di II livello esperto in relazioni industriali e di lavoro
Università degli Studi Roma Tre