L’art. 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
La parola chiave usata per qualificare lo Stato repubblicano uscente dalla dittatura e dalla guerra, insieme ai suoi cittadini, è “lavoro”.
È quasi un automatismo in molti casi identificare con il termine “lavoro” il solo lavoro dipendente, subordinato, magari anche a tempo indeterminato; il termine “lavoro” in realtà indica un concetto molto più ampio: il “lavoro” è l’attività compiuta dall’uomo, di cui il lavoro salariato rappresenta solo una componente.
Proprio il fatto che chi compie il lavoro è una persona fa assumere al lavoro umano un immenso valore etico e questo, naturalmente, si pone in contrasto con l’intendere e trattare il lavoro come “merce”, così come invece considerato da molteplici correnti di pensiero economico e/o materialista. Il ricondurre il lavoro alla persona, dunque, pone nella giusta prospettiva anche il rapporto tra il lavoro e il capitale, con una netta priorità del primo sul secondo inteso come insieme dei mezzi di produzione. Se il lavoro non è “merce”, infatti, mai si potrà considerare alla stregua dei fattori di produzione ma, semmai, uno strumento per il loro utilizzo.
È chiaro che nella storia, specialmente dello sviluppo industriale, lo squilibrio tra il mondo del “capitale” (cioè del mondo di chi mette a disposizione i mezzi di produzione cercando di trarne il massimo profitto) e quello del “lavoro” (cioè di chi mette le sue forze al servizio dei primi) è stato fonte di sfruttamento e di conflitto, conflitto anche strumentalizzato per dar voce a quelle teorie marxiste che vedevano nella lotta di classe l’unica soluzione per l’eliminazione delle ingiustizie, ma che, certo, sono sempre state lontane dal considerare la persona al centro e soggetto del lavoro (non a caso si riferiscono alle “masse” piuttosto che alle “persone”).
È importante, invece, considerare come il problema del rapporto tra capitale e lavoro possa essere inteso non necessariamente come una contrapposizione “a priori”: il lavoro dell’uomo, infatti, ha prodotto anche i mezzi stessi di produzione e dunque tutto, nel suo insieme, costituisce la totalità del lavoro dell’uomo.
Resta certo il nodo costituito dal “problema del lavoro”, cioè dello squilibrio che però esiste a causa di una ineguaglianza di potere contrattuale tra chi detiene il capitale e chi fornisce il lavoro per svilupparlo.
Il tentativo di ridurre questa ineguaglianza, di risolvere il “problema del lavoro” è ciò che dà vita alla libera associazione in sindacato (ricordiamo l’origine etimologica del termine, che è greca e significa “fare giustizia insieme”) e che dà vita ad una lotta, certo, non contro bensì a favore dei giusti diritti degli uomini del lavoro.
Infatti il “lavoro” partecipa a pari titolo del “capitale” al processo produttivo, realizzando progressi e ricchezze e ne è intimamente legato; la lotta per la riduzione degli squilibri che ne derivano è quella a favore del riconoscimento della dignità del lavoro il cui metro è sempre la persona, è la lotta per far partecipare il lavoro ai risultati che ha concorso a produrre.
Poichè il lavoro è imprescindibile dalla persona che lo svolge si capisce che questa è la lotta per il riconoscimento della dignità della persona e della sua realizzazione anche attraverso il lavoro che compie e che non sarà mai una lotta che mira ad annientare l’altro ma, semmai, ad unire e a far accrescere il bene di tutti.
Per realizzare ciò, il sindacato (in particolar modo un sindacato come la CISL) usa lo strumento che gli è proprio, la contrattazione, metodo che implica l’accettazione del principio di base che lo scopo della lotta sindacale non potrà mai essere quello di realizzare il mondo perfetto, la giustizia perfetta, la società “ideale” (quale, poi, fra le infinite “ideali” si dovrebbe mettere in pratica?), ma piuttosto quello della riduzione della ingiustizia, della promozione del bene comune (inteso nel senso di quanto scritto prima), nella mitigazione delle ineguaglianze sempre al fine di far emergere la persona, la sua dignità, attraverso il lavoro che compie.
Questo è contrattare: realizzare progressive aree di miglioramento della condizione di ciascuna persona e contribuire ad accrescere il bene comune.
In questo senso, dunque, si capisce che il diritto-dovere alla contrattazione, legittimato nell’ordinamento giuridico-legislativo dello Stato repubblicano italiano dal testo costituzionale, si traduce in un metodo ed una pratica che traggono le loro necessità da esigenze e verità ben profonde.
Le lotte per affermare la libertà di associazione, la tutela del lavoro e la conseguente promozione della dignità dell’uomo che vi si realizza, le lotte per la riduzione delle ineguaglianze hanno, fra i tanti risultati, prodotto anche quanto scritto nell’art. 1 della Costituzione; mettendo al centro il lavoro, si rende legittimo tutto quanto è volto alla sua tutela e promozione che ha sempre come elemento fondante la persona.
Il diritto-dovere alla contrattazione che nasce da quanto scritto fin qui e che pre-esiste alla Costituzione che ne registra la legittimità, la ha anche prodotta.
Credo sia questa la chiave di lettura che dà un senso vero al nostro unirci in sindacato e alla azione che quotidianamente svolgiamo nei vari livelli dell’organizzazione. Il nostro libero associarci ci rende soggetti attivi nella società: questo determina il nostro riconoscimento nell’ordinamento giuridico-legislativo, non ne è un suo derivato.
È anche per questo che la CISL si è sempre battuta contro l’applicazione dell’intero art. 39 della Costituzione: la libertà di associazione in sindacato (così come stabilita nel comma 1 art. 39 Cost.) mal si combina con il riconoscimento giuridico dello stesso da parte dei poteri pubblici così come invece disposto nei commi successivi.
Considerare la natura essenzialmente associativa del sindacato, quindi, riconduce alla dimensione di libertà espressa anche dal dettato Costituzionale; libertà dei lavoratori di associarsi in sindacato e libertà dei sindacati (che altro non sono che l’insieme dei lavoratori organizzati) di organizzare al proprio interno la loro vita associativa. È proprio questa “democrazia associativa” che determina il potere della rappresentanza e, cioè, la rappresentatività del sindacato che contratta, più della verifica elettorale presupposta, invece, da un modello di rappresentanza basato sulla teoria della “collettivizzazione” del fenomeno sindacale.
Dunque, da questo discende che il potere della rappresentanza non potrà mai derivare da una legge ma che, anzi, è vero il contrario e cioè che il richiedere a gran voce il riconoscimento, autoritario, per legge è testimonianza di grande debolezza e fragilità.
La crisi, la globalizzazione hanno profondamente turbato anche il mondo del lavoro facendo forse aumentare la percezione di questa “fragilità” e così, come in un’emergenza, si cercano soluzioni rapide, spesso scorciatoie che rischiano però non solo di non produrre risultati efficaci, ma anche di vanificare e di cancellare con un colpo di spugna quanto faticosamente guadagnato dal dopo guerra ad oggi in termini di partecipazione, sussidiarietà, autonomia della società civile, libertà di associazione, partecipazione democratica.
Invocare una legge sindacale sulla rappresentanza è una di queste scorciatoie, così come pensare di riformare il mercato del lavoro introducendo il contratto unico di ingresso con l’annessa (ennesima) “riforma” dell’art. 18.
Lungi dal servire al rilancio della nostra economia e industria, si tratta di una proposta che per come annunciata non tiene in conto la complessità, l’articolazione e la varietà del “lavoro” nel suo insieme: il “mondo del lavoro” non si può, come dicevamo, riferire al solo lavoro dipendente, ma è l’insieme dei lavori svolti dall’uomo che certo non possono essere ricondotti ad un’unica generalista forma contrattuale.
In questo caso, si tratterebbe di una presunta forma di razionalizzazione, un modo per sposare quella semplificazione che oggi è così di moda, l’inseguire l’utopia della omogeneizzazione delle diversità (diversità del lavoro, dei lavoratori, delle imprese), l’ennesimo cedimento ad una visione generalista e non pluralista, dirigista e non sussidiaria, statalista e non partecipativa, dell’imposizione autoritaria di standard se va bene “teorici” ma che poco o nulla hanno a che fare con la realtà multiforme, dinamica e variegata del mondo del lavoro.
Sembra, inoltre, ancor più superflua una nuova regolazione dei contratti di ingresso se solo si considera l’apprendistato, una forma di “contratto unico” di ingresso, già regolato dalla legislazione e dai contratti di lavoro collettivi. Quale necessità allora di mettere nuovamente mano (e non per richiesta delle parti) a tale materia? Sembra questa in realtà una necessità politica più che di merito sindacale. L’azione sindacale, invece di rincorrere improbabili “semplificazioni”, torni alla sua specificità che per noi CISL è la tutela e la promozione della persona nei luoghi di lavoro e nel territorio.
Se c’è uso fraudolento di contratti a progetto e partite IVA si dovrà ricercare la migliore soluzione che elimini gli abusi ma allo stesso tempo tuteli l’uso autentico di queste forme di lavoro poiché non si tratta di contrapporre lavoro autonomo a lavoro subordinato; se i percorsi formativi per l’apprendistato si rivelano essere troppo burocratizzati per essere funzionali, il sindacato dovrà spingere per una formazione efficace perché questa è parte integrante dello sviluppo della persona del lavoro e non chiedere l’intervento di un legislatore anche poco informato; se servono regole certe per l’applicazione e l’esigibilità dei contratti di lavoro stipulati, il sindacato potrà farsi promotore di regole migliori ma non farsi imporre come organizzare la rappresentanza dei propri associati da una legge né tantomeno sottostare a meccanismi di selezione imposti da una parte terza.
Esigibilità degli accordi, rappresentatività, norme per i contratti di lavoro, autentica formazione professionale, rilancio dell’economia non si realizzano certo per imposizione legislativa, ma attraverso la libera partecipazione e il libero accordo delle parti in causa.
È la contrattazione la via che un sindacato libero segue per affrontare e risolvere i nodi del lavoro, non l’intervento per legge; è la conoscenza che le parti hanno che consente di trovare le soluzioni più efficaci non un astratto intervento d’autorità. Ancora oggi dobbiamo domandarci se è davvero utile una regolazione per legge dei rapporti di lavoro. E, nel caso, a chi davvero giova? Un sindacato forte e autorevole certo non abdica in favore di un’idea di Stato onnisciente e onnipotente che solo in quanto tale deve essere in grado di trovare le migliori soluzioni per tutti, ma in virtù del suo associare le persone del lavoro sa contrattare il meglio per chi rappresenta.
Ripercorrendo la storia del movimento sindacale in Italia, forse dovremmo ricordare la capacità delle parti di regolare con accordi interconfederali le materie del lavoro nell’“età dell’oro” degli anni Cinquanta e considerare, come fa Pietro Merli Brandini nel suo saggio Diritto e rovescio che «non ci può essere un’età dell’oro in assenza di libere associazioni, con potere di rappresentare i propri interessi e negoziarli veramente. L’età dell’oro finì dagli anni Sessanta in avanti, quando vincoli legislativi ripresero consistenza e avanzarono, limitando la libertà negoziale, o quando le parti ritennero più conveniente mettersi sotto la protezione dello Stato, limitando in cambio la propria autonomia».
Il sindacato quindi, oggi come sempre, dovrà evitare le scorciatoie di un intervento legislativo, specialmente dove non necessario come il recente caso della proposta del “contratto unico”, ma percorrere la strada vera e autentica della rappresentanza delle persone del lavoro nei luoghi di lavoro e nel territorio. Solo così potrà non solo recuperare un vero e autentico potere di rappresentanza ma anche contribuire alla creazione di una società più libera e democratica e alla realizzazione di una visione di società davvero partecipata e sussidiaria.
Sabina Tagliavini
Segretario FIM-CISL Roma e Lazio