Naspi per dimissioni volontarie? Tutt’altro

Bollettino ADAPT 16 dicembre 2024, n. 45
 
Tra gli emendamenti presentati dai relatori in Commissione Bilancio alla Camera dei Deputati, è spuntato – oserei dire a sorpresa tra gli addetti ai lavori – un nuovo art. 23-bis, che introduce una nuova ipotesi di riconoscimento del trattamento Naspi di cui al d. lgs. n. 22/2015.
 
In qualche caso la stampa anche non specializzata, nel dare la notizia dell’emendamento ha parlato di Naspi riconosciuta per ogni ipotesi di dimissione o risoluzione consensuale, a partire dal 1° gennaio 2025, paventando quindi un ribaltamento delle consolidate logiche di sostegno al reddito dei lavoratori disoccupati, che si fondano sulla tutela del lavoratore che perde involontariamente il posto di lavoro, e non che lo abbandoni per dimissioni volontarie.
 
A legislazione attuale infatti, il trattamento di disoccupazione è riconosciuto (art. 3, d. lgs. n. 22/2015) per ogni caso di interruzione involontaria del rapporto di lavoro (licenziamento individuale o collettivo), in caso di termine naturale del contratto di lavoro, per dimissioni o risoluzioni consensuali a seguito di trasferimento oltre i 50 Km e per quelle rassegnate nel periodo protetto per i neo-genitori (art. 55, d. lgs. n. 151/2001), ed infine nell’ipotesi di dimissioni per giusta causa.
 
Per meglio comprendere la (reale) portata della novella, qualora dovesse effettivamente arrivare sino alla Gazzetta Ufficiale, riportiamo il testo della proposta emendativa. Questa la formulazione della nuova lettera c-bis) all’art. 3, co. 1, del decreto 22: «con riferimento agli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1° gennaio 2025, possano far valere, almeno tredici settimane di contribuzione dall’ultimo evento di cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato interrotto per dimissioni volontarie, anche a seguito di risoluzione consensuale, fatte salve le ipotesi di cui al comma 2 e di dimissioni di cui all’articolo 55 del decreto legislativo 26 marzo 2001 n. 151. Tale requisito si applica a condizione che l’evento di dimissioni sia avvenuto nei dodici mesi precedenti l’evento di cessazione involontaria per cui si richiede la prestazione».
 
Al di là della formulazione a tratti certamente non precisa (si finisce per parlare di risoluzione consensuale come tipologia di dimissioni volontarie, essendo le prime un vero e proprio contratto, le seconde un atto unilaterale) e della salvaguardia di alcune ipotesi speciali, sono altri gli aspetti su cui l’intervento merita qualche valutazione oltre la concitazione parlamentare (e di cronaca) che accompagna ogni discussione sulla legge di bilancio.
 
In primo luogo, è semplice dare atto della circostanza per cui viene introdotto un nuovo requisito di spettanza del trattamento di disoccupazione.
 
Maggiori problemi di natura interpretativa si sollevano invece imbattendosi nell’ultimo periodo del testo, dove cioè si arriva al cuore del requisito di spettanza. La disposizione si riferisce infatti a quelle dimissioni (o risoluzioni consensuali, direi anche se non citate, nella logica della comunanza già evidenziata) intervenute nei dodici mesi antecedenti l’ipotesi di recesso involontario «…per cui si richiede la prestazione», essendo così finalmente chiaro il presupposto di riconoscimento.
 
Se ad una prima lettura semplicistica si potrebbe infatti cadere in errore (una nuova ipotesi di riconoscimento della Naspi per il caso di dimissioni), ad una lettura attenta del testo e del sistema in cui esso si collocherebbe, coordinando l’ultimo periodo con il primo, la nube sembra in parte dipanarsi, potendo riassumere l’ipotesi nei seguenti termini.
 
Parliamo a ben vedere (il dato lo si trova all’ultimo periodo) sempre di una ipotesi di licenziamento a fronte della quale il lavoratore si attiva per fare domanda di Naspi. La disposizione si riferisce infatti al caso (particolare) del lavoratore che subisce una interruzione involontaria dal rapporto di lavoro, preceduta da di dimissioni (o risoluzione consensuale), verificatosi entro i dodici mesi antecedenti la cessazione involontaria.
 
In questa ipotesi, il requisito delle 13 settimane di contribuzione già previsto dall’art. 3, co. 1, lett. b), d. lgs. n. 22/2015 («possano far valere, nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione, almeno tredici settimane di contribuzione») andrà verificato – si badi bene – non già dal recesso per cui si chiede la Naspi, ma a partire dalle dimissioni (o risoluzioni consensuali) che fossero precedentemente intervenute (presso altro datore di lavoro).
 
Se è così evidente che non si tratta di un riconoscimento generalizzato e senza coperture ad ogni tipo di dimissione – il che ci conforta, se pensiamo ad esempio fenomeno delle “grandi dimissioni” che tanto ha fatto discutere (sul punto vedi F. Seghezzi, Le «grandi dimissioni» sono già finite. Ma la pandemia ha cambiato il lavoro per sempre) –, pur consapevoli della difficoltà di offrire commenti a caldo a disposizioni complesse, può dirsi intanto come si tratti in realtà dell’esatto opposto, cioè di una non banale restrizione al riconoscimento del trattamento di disoccupazione.
 
A normativa vigente infatti, alla domanda di Naspi, non rilevano eventi interruttivi volontari precedenti, potendo verificare il requisito delle 13 settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti, a prescindere da ogni vicenda contrattuale pregressa.
 
Risulterebbero invece qui penalizzati quei lavoratori che avessero optato per cambiare attività lavorativa (dimissioni volontarie) e si vedessero ad esempio licenziati, per qualsiasi motivo, prima di un anno, dal successivo datore di lavoro con il quale avessero stipulato un nuovo contratto a tempo indeterminato.
 
Tra le ipotesi più eclatanti, si pensi, ad esempio, al licenziamento collettivo dove, per i requisiti di legge che fanno perno – tra l’altro – sull’anzianità di servizio, potrebbero essere tra i primi a perdere l’occupazione, o al mancato superamento della prova.
 
È evidente che una riflessione, almeno sul piano dei casi eccezionali e “limite” – come si dice nel gergo giuridico – può (e dovrebbe) ancora farsi.
 
Marco Menegotto

ADAPT Research Senior Fellow

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