Durante il mio soggiorno natalizio a Londra, tra le tante attività commerciali lungo le vie londinesi, non sono riuscito a non trovare un giovane italiano. Diplomati provenienti dalla provincia e laureati dalle grandi città, quasi a ricordare l’emigrazione degli anni Sessanta e Settanta.
Parlare con loro, per strada e in metro, non è stato per nulla difficile perché l’italiano anzi gli italiani sembrano essere diventati la maggioranza. Ognuno di loro ha una storia da raccontare, da voler raccontare perché nella capitale inglese molti di loro fanno lavori umili con retribuzioni che vanno da 4,5 a 7 pound per ora ed hanno contratti unlimited con un numero minimo garantito di ore lavoro che va da 1 (come accade per la ragazza della reception dell’hotel dove ho alloggiato) a 16 ore alla settimana. In pratica, una sorta di contratto a chiamata!
Con gli occhi di un italiano questi giovani immigrati non sono altro che precari sfruttati ma, diversamente, le loro biografie rivelano il contrario: nessuno di loro tornerebbe in Italia, si sente un precario e schiavo del lavoro. E ancora, tutti sono convinti di svolgere un lavoro umile e che probabilmente non farebbero in Italia perché in terra straniera, nonostante tutto, si sentono rispettati, vivono decorosamente e sono convinti che potranno costruire il loro amato e meritato futuro. In altri termini, dunque, questi giovani hanno finalmente trovato quell’ossigeno vitale che permette loro di dare senso ai propri sforzi personali e professionali: l’opportunità e la prospettiva.
Le storie di questi ragazzi fanno riflettere rispetto alla possibilità mai avanzata in Italia di un contratto davvero leggero ed agile. È importante, infatti, che anche il nostro Paese inizi a ragionare su una forma di semplificazione e perché no, anche di deregolamentazione. Non si tratta di negare diritti ma semmai di garantire il diritto a quella opportunità e prospettiva che i nostri giovani stanno ricercando (e che a volte trovano) in terra straniera.
E ancora, allo stato attuale pensare al contratto di lavoro, con tutte le sue norme e complessità, quale obiettivo ci rende ancora lontani dalle vere soluzioni. In considerazione della lunga vita professionale che spetta ad un giovane lo si assume in 24/48 ore e non in 15 lunghi giorni. I primi tre anni, infatti, devono essere quelli più importanti e costruttivi verso lo sviluppo delle competenze tecnico professionali. Non servono tasse, aumento del costo del lavoro e bizantinismi normativi.
Serve maggiore agevolazione, flessibilità e chiarezza relativamente alle forme contrattuali esistenti in Italia che siano in grado di inserire, veramente, i giovani nel mercato del lavoro. Una soluzione, ogni giorno rimarcata e ricordata anche dai media, è l’apprendistato: eccellente strumento ma che dovrebbe essere senza barriere in entrata, con enti bilaterali che imperversano sugli apprendisti senza una vera funzione di garanzia reale; in itinere con percorsi di formazione di dubbia efficacia quando si sa che la formazione è migliore quando è impartita direttamente in azienda; in uscita, visti gli stretti vincoli per le imprese.
Giovani, formazione, competenze e imprese. Un quadro ben dipinto ma con forti sfumature normative che, ancora oggi, nessun pennello è in grado di aggiustare: quando la flexsicurity di Pietro Ichino viene bollata come macelleria sociale e la Legge Biagi viene definita come la prima causa di non occupabilità e precarietà vuol dire che i colori della sconfitta sono chiari e nitidi e la mano dell’artista è ancora tremolante.
Salvatore Corradi
Presidente di Bachelor
@bacheloritalia
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